Omelia (14-04-2018)
don Cristiano Mauri
Buon Gesù, pensaci tu

Il miracolo dei pani raccontato nei versetti precedenti ha lasciato degli interrogativi aperti sull'identità di Gesù.

Giovanni affronta la questione con la camminata sulle acque. Nel quarto vangelo, questo episodio, presente anche negli altri tre, è costruito come il racconto di una epifania, cioè di una manifestazione divina.

I discepoli si trovano lontani da Gesù. È notte e stanno navigando su un mare mosso e spazzato da un vento forte.


C'è dunque la solitudine causata dalla separazione dal Maestro, la paura legata alla tenebra e il senso di pericolo dovuto all'agitarsi del mare.

Eppure l'evangelista non intende dare l'impressione di una situazione drammatica e disperata. Tanto che i discepoli nemmeno invocano soccorso da parte di Gesù.

Semplicemente «lo vedono». Si tratta di una visione piena, è un riconoscimento a tutti gli effetti.


Si spaventano proprio di questo. Non è la tempesta a incutere timore ma il Maestro che cammina sulle acque.

È un'immagine che ha in ambito biblico un significato teologico forte: il mare è simbolo del caos primordiale, del disordine originario, perciò camminarci sopra e dominarlo rappresenta il manifestarsi della potenza divina.

Gesù che cammina sul mare in tempesta, dunque, agisce come solo Dio può agire, rivelandosi della sua stessa natura e come depositario del suo stesso potere.

La paura dei discepoli è il timore di fronte al divino che si mostra in Gesù.

Colui che ha distribuito pane in abbondanza è tutt'uno con Dio.

Gesù ne dà conferma proprio attraverso l'espressione che rivolge ai discepoli: «Io sono! Non abbiate paura!».

L'invito a non temere è tipico delle manifestazioni divine, mentre l'espressione «io sono» è quella abitualmente usata da Jahvé nell'Antico Testamento per identificarsi.

Giovanni non descrive poi lo spegnersi della tempesta, ma appena avvenuta la manifestazione la barca tocca terra, togliendo i discepoli da una situazione comunque scomoda.

Non si è trattato dunque di un miracolo sulla natura, ma di una rivelazione dell'identità divina di Gesù: è il Signore.

L'immediato approdo dà al mostrarsi di Dio in Gesù la dimensione e il senso di una liberazione.


Buon Gesù, pensaci tu

L'immagine di un Dio che viene, da Sè o su richiesta, a toglierci le castagne dal fuoco ha i suoi ammiratori.

Nulla di male, anzi. Direi che è una bella cosa quando si tratta di fede nel fatto che Dio non ci lascia soli nelle nostre avventure e ancor meno nelle disavventure.

L'angelo custode che fa scampare miracolosamente all'incidente o l'intervento soprannaturale che rimedia al pasticcio umano.

Certo, ci sarebbe poi da affrontare tutto il problema relativo agli eventuali mancati interventi o presunti tali, e alle "differenze di trattamento" riservate all'uno o all'altro fedele, senza spiegazioni apparenti, ma tant'è.

Tutto di male, invece, se prende le pieghe di una sorta di superstizione religiosa, secondo la quale Dio c'è e interviene ma solo sulla base di determinati presupposti, requisiti o condizioni. Se "faccio", se "sono", se "dico" allora Lui agisce, altrimenti tace.

Molto, molto somigliante a quella tentazione che vuole spingere Gesù a manipolare il Padre: «Se tu sei figlio di Dio, gettati giù...».

Comunque, nell'uno e nell'altro caso - buona fede o superstizione - ne viene fuori un'idea di Dio, della Sua presenza e del Suo agire troppo addomesticata.

Come di Uno che sta dentro le righe e solo negli spazi delimitati.

C'è ma a giorni alterni, agisce ma fino a un certo punto, ama ma con parsimonia.

Un Dio che, alla fine, non suscita alcun timore, nemmeno quello giusto, anzi.

Al massimo risulta un po' misterioso, ma tutto sommato prevedibile.

Potente ma coi suoi bravi limiti.

È vero che il Vangelo ci invita a non temere Dio, ma questa specie di "normalizzazione" del divino è un'altra cosa.

E non è buona.

Volgersi a Dio non può non avere in sé anche un vero e proprio turbamento, almeno un batticuore.


Cercare, riconoscere e contemplare la sua presenza trascendente non può non accompagnarsi anche a un certo smarrimento.


Toccare e sperimentare la sua vicinanza costante in tutti e singoli istanti della nostra esistenza non può non comportare un sussulto di inquietudine e un certo tremore.

Non si tratta di paura. Ma di senso del divino.

Riconoscimento di una incolmabile superiorità e di una indicibile alterità.

Lui è «il Signore».

Senza questo potrebbero le parole del Vangelo farci sentire il peso della loro autorevolezza?

Saprebbero sostenere le decisioni e orientare la vita di chi a loro si affida?

La Pasqua mi riporta al Gesù che cammina sulle acque.

E scuote l'eccesso di confidenza che lo trasforma in un brav'uomo con giusto qualche "numero" in più.

Il «Gesù formato amicone», alla fine, a che serve?

Cerchiamo in Gesù il Signore.

Il Signore.