Omelia (22-04-2018) |
don Alberto Brignoli |
Tra gregge e recinto Vedere un gregge, nelle nostre zone, ai nostri giorni, diventa un'immagine sempre più rara quanto bucolica, quasi romantica. Vedere nei nostri campi alcune greggi che poco a poco approfittando del primo tepore primaverile iniziano a prepararsi alla transumanza, fa senz'altro tenerezza, soprattutto quando si vedono alcuni agnellini saltellare vicino alle pecore madri o addirittura riposare, perché troppo piccoli, nelle tasche collocate sul dorso degli asini, veri compagni di viaggio e fedeli collaboratori dei pastori, insieme agli instancabili cani. Certo, la vita del pastore non è una vita romantica e tenera come a noi appare, ancor più in zone - come le nostre, ad esempio - in cui le stalle riparate per gli ovini sono rare, e la stragrande maggioranza del tempo viene trascorso a fianco del gregge, esposti alle intemperie di ogni tipo. Per non parlare degli insulti o del disprezzo da parte di alcuni automobilisti che non hanno la pazienza di aspettare per qualche minuto il passaggio di un gregge su una strada principale, salvo poi banchettare a Pasqua a base di arrosticini di agnello e formaggio pecorino. Insomma, vivere da pastore non è facile, e possiamo immaginare che la vita solitaria del pastore non sia fatta sempre di momenti di serenità, di pace e di felicità. Questo per toglierci dalla mente l'iconografia stampata nel nostro immaginario collettivo e legata alla figura di Gesù Buon Pastore che, come ogni anno, contempliamo in questa quarta domenica di Pasqua. Abbiamo molto ben presenti quelle immaginette in cui Gesù Buon Pastore è raffigurato accarezzando le pecore che, docili, si avvicinano a lui come fossero animali domestici (un cagnolino o un gattino), oppure Gesù che con uno sguardo tra il sentimentale e l'allucinato prende in braccio un agnellino e lo coccola teneramente quasi fosse un peluche. Devo essere sincero: a me queste immagini suscitano qualche perplessità, per non dire "prurito spirituale", perché mi danno sempre l'idea e il senso di stare al sicuro nelle mani di Dio, che può senz'altro rappresentare una cosa molto vera, ma anche pericolosa per la nostra vita di fede. E soprattutto, poco confacente alla vera immagine di Gesù Buon Pastore. Infatti, l'identificazione che Gesù fa di se stesso con il Buon Pastore nel capitolo 10 del vangelo di Giovanni, di cui abbiamo letto alcuni versetti questa domenica, suscita tali sentimenti di tenerezza, di dolcezza e di rassicurazione che i Giudei che lo stavano ad ascoltare, al termine del suo discorso raccolgono pietre per lapidarlo! Probabilmente, quello che aveva detto loro con questa similitudine del Buon Pastore non aveva un effetto poi così tranquillizzante come pensiamo. Come mai? Partiamo innanzitutto proprio dal nome che Gesù si attribuisce: "Io sono il Buon Pastore". E già esordire con la frase "Io sono", e ripeterla più volte all'interno di un medesimo discorso, suscita non poca irritazione, nei Giudei intesi come autorità del popolo, poiché - lo sappiamo bene - "Io sono" è l'impronunciabile nome di Dio, rivelato a Mosè nel roveto ardente. Quindi, già qui c'erano tutti i presupposti per lapidare Gesù per bestemmia: ma questa non era una novità, per lui. L'altra particolarità viene proprio dall'aggettivo "buono" affiancato a pastore. Il testo originale greco, in realtà, non parla di "buono", ma di "bello": bello non nel senso estetico del termine, ma nel senso morale o comunque "pratico", "pragmatico" del termine, ossia nel senso di "bravo", "in gamba" (come quando, ad esempio, diciamo di un giocatore di calcio tecnicamente valido che è "un bel giocatore", anche se magari fisicamente non è il non plus ultra della bellezza). Gesù quindi non si definisce un pastore buono nel senso di mite, di pacifico, di buono d'animo o di carattere, altrimenti in questo modo non sarebbe imitabile da chi buono di carattere non è; Gesù è il Buon Pastore nel senso di un pastore bravo, valido, in gamba, dedito al suo lavoro, alla sua missione, potremmo dire. Talmente dedito, che per il suo gregge giunge a "dare la vita", a dare tutto se stesso senza risparmiarsi, o senza l'esclusiva preoccupazione di lavorare per guadagnare, come fa invece il mercenario, che non è un malvagio: solamente, lui fa il suo lavoro per ricevere uno stipendio perché non è pastore, non è proprietario del suo gregge, e quindi non è obbligatoriamente chiamato a prendersi a cuore le pecore che gli vengono affidate, ma solo a portarle fuori dal recinto al mattino e riportarle dentro la sera, per poi tornarsene a casa sua. Il pastore buono invece, quello bravo, instaura un rapporto personale con il proprio gregge: stiamo, ovviamente, uscendo dalla parabola per giungere al punto di comparazione, quello per cui siamo noi il gregge di Gesù Buon Pastore, e con lui siamo chiamati a entrare in un rapporto di intimità tale per cui è sufficiente ascoltare la sua voce, sentire il suo tono di voce, al di là di quello che dice, per correre da lui. Proprio come un gregge che va dietro al pastore anche solo ascoltando il suo tono di voce o un semplice fischio. Certo, perché si crei un rapporto di questo tipo, occorre una relazione di estrema fiducia tra il pastore e il suo gregge: una fiducia che nasce dalla dedizione che il pastore ha per il suo gregge, e soprattutto dal dono più grande che Gesù Buon Pastore fa alle sue pecore, la libertà. Forse è questo che ha urtato la sensibilità dei Giudei nei confronti di Gesù: avere detto loro di avere altre pecore "che non provengono da questo recinto", di "doverle guidare pure loro", e di farle diventare "un solo gregge, un solo pastore". Gesù, in pratica, si trova di fronte pecore che vivono in "questo recinto" e pecore che "non provengono da questo recinto", ma che comunque la vita del recinto la sperimentano, eccome: di tutte queste, vuol fare non più un "recinto", ma un "gregge" che cammina ascoltando la sua voce che lo guida. Non è la stessa cosa vivere in un recinto e vivere come gregge: il gregge dà immediatamente l'immagine del pascolo, della libertà, dell'aria aperta e pulita, e dell'erba fresca da mangiare. Il recinto, invece (o l'ovile, o la stalla), richiama la chiusura, la mancanza di libertà, la mancanza di aria e di freschezza: certo, dà senso di sicurezza, di protezione dai pericoli, ma quando una pecora entra in un recinto o in una stalla e non ne può uscire se non perché il pastore gli apre il chiavistello, la sua sorte è segnata. Può significare, purtroppo, che in quel recinto morirà, e ne uscirà solo per essere macellata. Visto che oggi è la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, e visto che lo è proprio per via della Domenica del Buon Pastore, me lo permettete un augurio a quei pochi (almeno qui in Italia) che ancora accettano il rischio di donare la loro vita a Dio e ai fratelli preparandosi per il sacerdozio? Auguro loro - ma anche a me stesso, e a tutti i pastori della Chiesa - di esserlo a imitazione di Gesù Buon Pastore, che non ha mai preteso di rinchiudere nessuna delle sue pecore in un recinto per sentirsi al sicuro con loro, ma ha accettato la sfida di farne un gregge, libero; libero di pascolare all'aria aperta, libero di provare ogni tipo di pascolo, libero di aprirsi all'incontro anche con altre greggi, libero anche di sbagliare strada e di perdersi. Tranquilli, che se il Buon Pastore è Gesù e chi lo imita, appena una sola pecora si perde, sappiamo bene come va a finire. |