Commento su Gv 3, 16-17; 19-21
«Gesù disse a Nicodèmo: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. [...]. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie... Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Gv 3, 16-17; 19-21
Come vivere questa Parola?
Nel Vangelo odierno di Giovanni troviamo ancora la figura nota del ‘notturno' interlocutore di Gesù, Nicodèmo, al quale il Maestro di Nazareth fa le ultime rivelazioni che sono preziose pure per noi.
Anzitutto il tema del ‘giudizio': «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie». In questo giudizio l'Evangelista vede non tanto un evento che accadrà alla fine, quanto piuttosto una realtà già presente. Si tratta della cosiddetta ‘escatologia realizzata' caratteristica di Giovanni. Secondo questa visuale, non sarebbe tanto Dio a giudicare, quanto piuttosto l'uomo stesso, con la propria vita. Con il suo rifiuto o con la sua accoglienza dell'amore apparso in Cristo, l'uomo si costruisce dentro di sé la salvezza o la condanna, diventa luce o tenebra. È la fede, dunque, che opera il giudizio ed è l'uomo a giudicare se stesso con il suo comportamento.
Il testo di Giovanni riportato sopra ci offre ancora due ulteriori precisazioni preziose.
- L'Evangelista definisce gli increduli: coloro che amano (agapàn) le tenebre, cioè coloro che scelgono consapevolmente e sono attaccati al male. Noi li potremmo definire con un termine oggi molto attuale: i corrotti che diventano poi anche corruttori. Pertanto non è solo questione di fare il male per debolezza e fragilità, (come un incidente di percorso, che non rivela però un orientamento di fondo), ma vi sono immersi fino al collo. Giovanni enuncia qui un principio morale fondamentale: l'agire condiziona il comprendere. La libertà interiore, l'amore alla verità, la vita retta sono pre-condizioni indispensabili per "conoscere". La santità della vita è necessaria per creare un "luogo teologico e ermeneutico" nel quale il mistero di Dio si possa svelare in tutta la sua potenza nel cuore dell'uomo.
- Infine, si osservi che nell'ultimo versetto del testo (v. 21) l'Evangelista usa un'espressione interessante: fare la verità. Secondo il modo comune di intendere della nostra cultura occidentale, la verità è una nozione da apprendere intellettualmente. Per il mondo biblico invece, e in particolare per Giovanni, la verità di Dio, non è tanto da conoscere, ma da fare, cioè è il piano salvifico di Dio da accogliere nella propria vita e da costruire insieme con Lui.
La voce di un grande Vescovo e Martire dell'Oriente
«Insegnare è bello se chi parla fa. Uno solo è il maestro, che disse e fu fatto (cfr. Sal 32,9) e le cose che egli ha fatto nel silenzio sono degne del Padre»
Ignazio di Antiochia, Efesini 15, 1
Don Ferdinando Bergamelli SDB - f.bergamelli@tiscali.it
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