Omelia (29-04-2018) |
Missionari della Via |
In questa domenica Gesù ci rivela la profonda unione che siamo chiamati a vivere con Dio; per farcelo capire usa l'immagine della vite e dei tralci. La vite nell'AT è figura del popolo d'Israele, curato con amore da Dio (Is 27,3.5), ma che spesso non ha portato se non tralci degeneri e frutti acerbi (Ger 2,21). La novità nelle parole di Gesù è che ora la vite vera è lui stesso e il Padre è il contadino che la cura. Noi suoi discepoli, quindi la Chiesa, siamo i tralci che da lui ricevono la sua vita, la "linfa" dello Spirito Santo: sul piano spirituale, la linfa è la vita divina che ci è stata data con il battesimo, lo Spirito Santo. Questa è un'unione più profonda di quella tra madre e figlio nella gravidanza. Tra madre e figlio scorre lo stesso sangue; il respiro e l'alimentazione della madre passano nel figlio. Ma il figlio non muore se si distacca dalla madre, anzi, per vivere a un certo punto deve farlo. Muore se resta unito alla madre più tempo del normale. Nel nostro caso, è il contrario: il tralcio non porta frutto e muore se si stacca dalla vite con il peccato grave. Capiamo allora che se vogliamo avere una vita piena, ciò che conta non è l'esser forti, bravi, attraenti, intelligenti ma rimanere uniti a Gesù. Uscire da questa comunione con il peccato significa solo morte: O la vite o il fuoco, soleva dire S. Agostino. Gesù ci invita a rimanere in lui, a non fare come le figurine "attacca e stacca". Perché? Perché senza di me non potete far nulla, dice Gesù. A noi sembra di far tante cose anche senza il Signore; a parte che senza di lui non facciamo nulla perché anche se non lo sappiamo o pensiamo, è lui che ci dà la vita e ci tiene in vita. Poi, materialmente possiamo anche fare diverse cose, ma spesso sono cose esteriori, inconsistenti, che vengono meno di fronte alle prove serie della vita. Ma come facciamo a rimanere in Cristo? Dice Gesù: Se rimanete in me e le mie parole in voi. Rimango dunque unito a Gesù se tengo nel mio cuore le sue parole, se medito il Vangelo, cercando di viverlo. Nel cuore teniamo tante parole: quelle del nostro "mito", del cantante di turno, dell'attrice del momento, del leader politico... parole, parole, parole, che scorrono via inesorabili. UNA sola è la Parola che ci dà l'eternità, che ci trasforma dal di dentro, che ci indirizza sulla giusta via e ci insegna l'arte di amare: la Parola di Gesù. Ma quando la parola di Cristo entra nel nostro cuore avviene un combattimento: tende a cacciare le altre incompatibili. Se vogliamo portare frutto, c'è da pulire, da semplificare, c'è da tagliare con tante parole inutili, tristi, amare, rabbiose, sterili, che non ci portano da nessuna parte; siamo chiamati a farla finita con tanti modi di fare egoisti, carnali, mondani, perché la vita di Dio possa davvero fluire in noi ed essere nel mondo canali della sua grazia. A volte questa potatura può essere anche dolorosa, ma è necessaria. Le nuove gemme della vita spirituale non nascono se non attraverso le lacrime della prova. Talvolta attraverso gli eventi della vita nostro Padre ci "pota" perché si fida di noi, sa che possiamo portare più frutto. Un giorno Michelangelo, passeggiando in un giardino di Firenze, vide, in un angolo, un blocco di marmo che sporgeva da sottoterra. Si fermò di scatto e rivolto agli amici che erano con lui esclamò: "In quel blocco di marmo c'è racchiuso un angelo; debbo tirarlo fuori". E, armatosi di scalpello, cominciò a sbozzare quel blocco finché non emerse la figura di un bell'angelo. Anche Dio ci guarda e ci vede così: come dei blocchi di pietra ancora informi e dice tra sé: "Lì dentro c'è nascosta una creatura nuova e bella che aspetta di venire alla luce; di più, c'è nascosta l'immagine del mio stesso Figlio Gesù Cristo (noi siamo destinati a diventare "conformi all'immagine del Figlio suo"); voglio tirarla fuori!". E allora che fa? Prende lo scalpello che è la croce e comincia a lavorarci; prende le forbici del potatore e comincia a potare. Non dobbiamo pensare a chissà quali croci terribili. Ordinariamente egli non aggiunge nulla a quello che la vita, da sola, presenta di sofferenza, fatica, tribolazioni; solo fa servire queste cose alla nostra purificazione. Ci aiuta a non sciuparle. Certo, non è facile per nessuno sopportare i colpi dello "scalpello divino". Tutti gemiamo sotto la croce, è normale. Ma non dovrebbe mai mancare, con il lamento, anche la speranza. Dopo la potatura, ci sarà la primavera, e abbonderanno i frutti (R. Cantalamessa). Coraggio dunque: le prove nella vita non sono atti ostili di Dio, ma i luoghi dove crescere nell'amore e nell'abbandono fiducioso in lui! |