Omelia (06-05-2018)
Agenzia SIR
Commento su Giovanni 15,9-17

Rimanere nell'amore di Cristo è al cuore della vita del cristiano e della Chiesa. Il primato dell'amore di Cristo e del Padre donato ai discepoli e alla comunità precede e fonda l'amore vissuto nella e dalla Chiesa. Il Vangelo mette in guardia contro la tentazione ecclesiale di ridurre l'amore anzitutto a un fare per altri, un fare magari organizzato. Essere attivi non è ancora agire, può essere una reazione alla paura del vuoto e all'angoscia. Una narcosi verso la percezione dell'irrilevanza e insensatezza della propria esistenza, anche comunitaria. L'agire del discepolo affonda, poggia, nasce dall'amore di Cristo e del Padre per lui. In un'orazione della liturgia leggiamo: "Nella tua continua misericordia, Signore, purifica e rafforza la tua chiesa e, poiché non può vivere senza di te, guidala sempre con il tuo dono". Dono indica sia l'amore sia lo Spirito. Sappiamo bene che le due realtà si sovrappongono.

Il Padre ama il Figlio. A questo amore il Figlio risponde con l'amare i discepoli. Gesù ama il Padre amando i discepoli. Solo dopo aver detto: "Rimanete nel mio amore" Gesù chiede di osservare i comandamenti. Non è la custodia del comandamento a "ottenerci" l'amore di Gesù, ma - come scrive Agostino -: "Se egli non ci amasse, non potremmo osservare i comandamenti. Questa è la grazia che è stata rivelata agli umili, mentre è rimasta nascosta ai superbi".

I comandamenti, che sono condensati e hanno la loro chiave di lettura nel comandamento nuovo dell'amore vicendevole, altro non sono se un dono di Dio per farci conoscere il suo amore. Custodire il comandamento, interiorizzarlo, farlo divenire criterio di discernimento nelle varie situazioni diventa un rimanere nell'amore di Cristo, perché è questo amore a plasmare come credenti e a dare un volto alla comunità cristiana. L'amore genera vita in chi lo accoglie!

L'amore in cui rimanere è quello di Gesù che depone la vita per i suoi, chiamandoli amici, perché a essi manifesta l'intenzione del Padre. I credenti non sono servi di un Dio lontano e arbitrario, non sono dunque nemmeno sudditi di un regno dispotico o dipendenti di un'impresa. La relazione fra il Padre e il Figlio forma non solo la relazione dei discepoli con Gesù ma anche le relazioni nella comunità. Come Gesù rispetta i discepoli chiamandoli amici, li vede preziosi ai suoi occhi, dà a loro vita dando la sua vita, così è l'amore reciproco che edifica la fraternità. "Se ci amiamo gli uni gli altri Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto" (1Gv 4,12), cioè ha raggiunto il suo fine. Il dono di Dio in noi, il suo amore e il suo Spirito, raggiunge la completezza quando come Dio è mistero di comunione nell'amore, così anche noi giungiamo all'amore reciproco, ad amare i fratelli e le sorelle dello stesso amore.

Questo introduce nella gioia. C'è una gioia di amare che nasce dall'essere amati.
Non considera tale amore un tesoro geloso da custodire. Questa esperienza apre all'amare gli altri. Il fine della vita cristiana è la gioia che nasce dal rimanere nell'amore di Cristo e nell'amare a misura di Cristo.

Commento a cura di Davide Varasi