Omelia (06-05-2018)
don Maurizio Prandi
Un amore che impara

Questa pagina è il trionfo della gratuità! Contro ogni malinteso, contro ogni fraintendimento, Gesù dice chiaramente che non è la reciprocità ma la gratuità il cuore del suo messaggio. Daniele lo sottolineava bene durante il momento di preghiera comune sul vangelo: non ci ha chiesto di amare lui, ma di amare gli altri, di amarci gli uni gli altri! Non: come io vi ho amato voi amate me ma amatevi tra di voi; non chiede niente per se Gesù, non chiede contraccambio, ai suoi discepoli chiede solo di essere gratis! Non possiamo amare nella misura in cui gli altri ci amano, perché nel momento in cui ci amano di meno cosa facciamo? Amiamo di meno anche noi? Gesù non ha amato di meno, ha amato, punto!


Poi (un pensiero questo che traggo da uno scritto di don Daniele Simonazzi), è bello questo: da qui in avanti l'amore, la carità, la benevolenza non sono più una filosofia, un pensiero, un sogno, un desiderio; da qui in avanti l'amore è una persona: Gesù! È il suo volto, la sua voce, il suo sguardo, le sue parole, i suoi gesti, le sue scelte; l'amore non è una teoria, una legge o un comandamento nel senso veterotestamentario del termine: l'amore è una persona! Gesù! Vivere la carità vuol dire vivere in riferimento a lui. Qui riporto quanto un pensiero che l'altra sera, ascoltando la lettura dell'esortazione di papa Francesco sulla santità, ci ha stupito molto: Grazie a Dio, lungo la storia della Chiesa è risultato molto chiaro che ciò che misura la perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la quantità di dati e conoscenze che possono accumulare.


C'è un verbo importante che non appare dalla traduzione che abbiamo ascoltato, ed è il verbo deporre. Gesù depone la sua vita (significativo pensare a questo verbo nel corso dei quattro vangeli: deposto nella mangiatoia da sua madre, Maria; e più avanti: "troverete un bambino deposto in una mangiatoia" è l'indicazione che viene data agli angeli) e Gesù sceglie e non costituisce, ma depone i suoi discepoli; ecco l'amore che come chiesa siamo chiamati a vivere, l'amore di chi da Dio si lascia deporre, non posso far finta di amare in modo diverso!


Soltanto chi li lascia deporre sa rimanere. Come ricordavamo nei giorni di Pasqua, Gesù è rimasto lassù sulla croce e facendo così ci ha detto che l'amore non è una conquista, non è qualcosa da raggiungere: l'amore è qualcosa in cui rimanere. Il vangelo ci invita a non scappare, a non andare lontano; rimani, rimani nell'amore! Non nascondo che mi spaventa un po' questa frase di Gesù: rimanete nel mio amore! Mi spaventa perché è come se mi venisse chiesto di rimanere in qualcosa che per me è troppo grande, qualcosa di cui sicuramente non ho il controllo, qualcosa di cui non sono capace. Sono discepolo nella misura in cui non idealizzo l'amore, ma provo a viverlo, ad incarnarlo. Non si parla certamente qui di quello che si dice amore platonico, quell'amore che idealizza l'altro e non passa all'azione, magari sublima tutto in qualche sospiro ma poi alla fine è incapace di dare la vita.


Rimanere in quell'amore, un amore grande quanto il cuore di Dio, un amore che impara:

- Impara a lavare i piedi dei discepoli dal gesto di una donna giudicata peccatrice da tutta una città

- Impara a donare, deporre la vita dal gesto di una povera vedova che ha pochi spiccioli per il suo sostentamento e che decide di donarli al tesoro del Tempio

- Impara che nel paese di Dio nessuno è straniero e lo impara da una donna cananea, considerata da lui stesso indegna delle attenzioni del figlio di Dio in quanto straniera.


L'ultimo pensiero riguarda il chiedere nel nome di Gesù, un chiedere che è il chiedere non di una singola persona ma di una comunità. Qualunque cosa chiederete: una chiesa, una comunità che chiede, che tende le mani come i poveri, è una chiesa che non fa riferimento a se stessa; una chiesa che chiede nel nome di Gesù, è una chiesa che si mette al posto di Gesù cercando di rivivere i suoi gesti e le sue scelte, di annunciare le sue parole, di fare perno su Dio-Padre, l'unico necessario. Una chiesa nella quale non predomina la figura del superiore che comanda cercando di farsi ubbidire, ma dove ci si chiama con lo stesso nome che lui ci ha indicato: amici.