Omelia (08-07-2018)
fr. Massimo Rossi
Commento su Marco 6,1-6

Il racconto della vocazione di Ezechiele è, in sostanza, la storia di ogni vocazione a diventare profeta. Il profeta è per definizione una persona scomoda, che pronuncia parole scomode, e vive coerentemente alle parole che pronuncia. E dunque compie gesti che quantomeno fanno pensare...O, meglio, facevano pensare, in passato. Oggi neanche un profeta lo ascolta più nessuno...
Con questo clima di generale indifferenza, non c'è da stupirsi che neanche i profeti trovino seguito tra il popolo; men che meno tra coloro che abitano i palazzi del potere, politico, o religioso che sia. Perché la categoria del profeta è valutata in senso negativo: profezia e sventura vanno a braccetto.
Sarà questo stereotipo, sarà perché c'è inflazione anche di profeti e, si sa, l'inflazione ne diminuisce il valore. A proposito di stereotipo del profeta, è necessario precisare che, secondo la Bibbia, un profeta che non annunci l'avvento di una qualsivoglia salvezza, non è un vero profeta, comunque non lo è secondo Dio. La volontà di Dio è sempre una volontà di bene, di liberazione.
Fatto sta che il mestiere del profeta non garantisce il pane quotidiano: i profeti dell'AT conducevano quasi sempre una vita poverissima; letteralmente mendicavano il pane. Ma anche dal NT sappiamo che il profeta non se la passava bene, non per necessità, ma per scelta: un esempio per tutti, Giovanni il precursore, il quale viveva nel deserto, vestiva pelli di cammello, mangiava locuste e miele selvatico... E inveiva contro tutti: "Razza di vipere!"
La vocazione del profeta e, in generale, il mestiere del predicatore non paga mai. Non lasciatevi ingannare dagli odierni telepredicatori americani! Intendo i predicatori del Vangelo, i quali, in tanto annunciano il Vangelo, in quanto lo vivono radicalmente. Dirò di più: il primo annuncio avviene attraverso il comportamento, il modo di vivere, che colpisce, incuriosisce, attira e suscita il desiderio di ascoltare, e magari, anche, di imitare colui che predica.
Tornando alla prima lettura, tanto per ripassarvi la lezione, Ezechiele è quello che a nome di Dio annunciò al popolo di Israele: "Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo; toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne." (cfr. 36,26-27): la famosissima profezia che si legge la notte di Pasqua.

Venendo alla Rivelazione cristiana, uno degli esempi più autorevoli di cosa e di come si predica resta ancora e sempre san Paolo; il brano che la liturgia di oggi propone alla nostra riflessione, tratto dalla seconda lettera ai cristiani di Corinto, è una confessione intima dell'apostolo; questa spina che un messo di satana gli ha conficcato nella carne non si sa di che natura sia: una malattia? un handicap fisico? una tendenza sessuale? certo, era qualcosa di serio e di ineliminabile, contro il quale dovette sempre combattere.
Sappiamo che Paolo aveva un temperamento acceso, non era propriamente un diplomatico; da questo punto di vista risponde bene all'identikit del profeta, il quale non usa mezzi termini, non è politically correct; e non esita a indicare i rimedi estremi, a quelli che secondo lui sono mali estremi.
L'apostolo dei lontani è ossessionato dalla superbia - in appena tre righe la cita due volte -, contro la quale lotterà tutta la vita, mantenendo sempre una bassa, molto bassa autostima.
Evidentemente (san Paolo) non fu mai in grado di archiviare del tutto il passato di persecutore e nemico acerrimo dei cristiani; chiamava se stesso l'infimo degli Apostoli, addirittura un aborto...
Ma forse c'era dell'altro, che rendeva così negativa la sua percezione di sé.
In questa convinzione di essere l'ultimo in classifica tra i testimoni di Cristo, Paolo approdò ad una rivelazione che accese una luce non solo nella sua vita e nel suo ministero, ma che può riscattare la vita di tutti, a cominciare dalla nostra: "Ti basta la mia grazia - gli disse il Signore -; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza.".
Ecco la grande rivelazione per Paolo, e per noi!
San Giovanni sottolinea lo stesso principio teologico nella sua prima lettera, al cap. 3: "Qualunque cosa il vostro cuore vi rimproveri, Dio è più grande del vostro cuore."
La sfida è quella di imparare ad integrare le nostre debolezze, le nostre fragilità, nella vita fisica, nei nostri affetti, a scuola, nel lavoro...
Fragilità e debolezze non vanno demonizzate, non vanno vissute come un corpo estraneo, come un virus, come una malattia, come una disgrazia, qualcosa che ci rende meno uomini e meno donne... Ma questo non significa arrenderci e lasciare che i nostri lati peggiori si manifestino, senza provare almeno a lavorarci su.
Vedete, una fragilità può suscitare in noi due reazioni opposte; la prima è quella di fissarvi lo sguardo in modo ossessivo, malato, vivendola come una sorta di marchio di fabbrica; l'esito è fatale: ci si annega dentro! nessuno potrà aiutarci. Per noi non c'è redenzione! Ne siamo convinti, lo abbiamo già deciso! E se non c'è possibilità di redenzione, allora non la cercheremo neanche!
E a chi ce la offre, fosse anche Dio, non gli crederemo.
La seconda reazione alle fragilità è quella di chi, divenutone consapevole, alza lo sguardo e lo rivolge a Dio, come ha fatto san Paolo. E da Dio attende e riceve l'aiuto necessario per portare a compimento la missione ricevuta, o, più in generale, per realizzare la propria vocazione.
Punto di partenza per affrontare il cammino della redenzione è diventare consapevoli dei nostri punti deboli; così come è necessario conoscere le nostre doti.
Conoscete la regola del funambolo?
Immaginate una corda tesa, e noi che ci camminiamo sopra: il segreto è l'equilibrio; e per mantenere questo equilibrio precario, è necessario tenere saldamente tra le mani un bilanciere munito di pesi: da una parte collochiamo i pregi, dall'altra i difetti: se perdiamo di vista i difetti, saremo vittime della superbia; se invece trascuriamo i pregi, cadremmo nel vizio opposto, l'avvilimento e il disimpegno.
Benvenuti al circo della vita! Signore e signori, andiamo a incominciare! o, come dice una famosa canzone dei Queen: "The show must go on!".