Omelia (15-07-2018) |
fr. Massimo Rossi |
Commento su Marco 6,7-13 La vicenda di Amos raccontata nella prima lettura è un chiaro esempio dell'avvenire di un profeta, quando osa dire la verità che Dio gli ha ordinato di dire, in faccia a tutti, senza temere la collisione con l'autorità. Ci vuole coraggio, tanto coraggio per fare il mestiere del profeta. Potremmo metterci le spalle al sicuro - c'è un altro modo per dirlo, ma è meno elegante... - manifestando tutta la nostra solidarietà con i martiri della fede di ieri e di oggi, e consolarci nella convinzione che quella non è stata, non è la nostra vocazione... mica tutti sono profeti! E "qui casca l'asino!", è proprio qui che sbagliamo! Siamo stati battezzati: dunque abbiamo ricevuto la chiamata a diventare profeti, anche noi! In che cosa consiste questa vocazione profetica dei battezzati? Come si manifesta? Si tratta del coraggio della fede: alcuni aspetti non secondari della vita, cambiano, e molto, a seconda che facciamo valere la fede oppure no. A cominciare dalle nostre relazioni: certo, la carità cristiana che scaturisce immediatamente dalla fede ci impone di non fare distinzione di persona. Tuttavia, un conto è l'amore di carità che si deve a tutti, indipendentemente dal colore della pelle, dall'orientamento sessuale, dall'ideologia politica, dall'appartenenza sociale... Un altro conto è scegliere un amico, un'amica. Un altro conto ancora, è innamorarsi e accettare di essere innamorati di una persona che non condivida la fede, e dunque impedisca di poter vivere la fede insieme con lei, con lui per il resto della vita... Ricapitolando: non ho il diritto di scegliere colui, colei, coloro verso i quali realizzare la virtù teologale della carità; non così per gli amici, meno ancora per il partner. Nessuno può obbligarmi a stabilire un rapporto di amicizia con una persona che non possieda le affinità elettive necessarie. Nemmeno Cristo mi può obbligare! Così pure, non posso sentirmi in obbligo di assecondare un innamoramento, quando so che in tal caso dovrei, dovrò scendere a compromessi con la mia fede. Perché è questa la prospettiva, non illudetevi! Non può essere che con il mio partner, proprio con lui, io non possa vivere la mia fede! Cosa l'ho scelto a fare, se con lui, se con lei non posso condividere tutto: non sto parlando di sport, di hobby, di passioni letterarie,... Sto parlando di elementi essenziali della mia identità personale; la fede non è soltanto nell'ordine del fare; prima ancora, la fede è nell'ordine dell'essere: io penso e faccio cose da cristiani - passatemi l'espressione - perché sono cristiano! La fede è come l'ossigeno per i miei polmoni, come il sangue... Senza ossigeno non posso respirare, senza sangue non posso neppure esistere! Pensare che questa profonda identità cristiana possa interfacciarsi per tutta la vita con un'identità che di cristiano ha solo il certificato di battesimo, un'identità incontrata, conosciuta e scelta come l'unica possibilità di realizzazione personale, l'unica strada per raggiungere la mia felicità, l'unico strumento e mediatore della mia salvezza... Beh, chi accetta che possa succedere e che, nel caso succeda, perché no? nulla si può opporre all'amore.... etc. etc. Ebbene, costui, costei riconosca che forse - dico, forse - per lui, per lei, la fede non è poi così determinante. In casi come questo, è chiaro che la fede non è certamente, se non proprio l'unico criterio discriminante, uno dei criteri discriminanti della scelta affettiva. So che questo discorso è duro da ascoltare e da condividere. E temo anche che mi farò dei nemici, parlandovi così francamente. Ci vuole tanto coraggio per fare il mestiere del profeta. C'è di più: è vero che parlare di fede significa parlare in nome di Cristo; ma, ripeto, c'è dell'altro; e questo ‘altrò sono io! Mi spiego: quando ricevetti il battesimo, ricevetti il dono della fede. Da quel momento la fede teologale è diventata la mia fede. Raggiunta la maturità, anche questo bene che ricevetti alla mia nascita, è diventato pienamente mio, come tutte le altre facoltà superiori. Da bambino i miei ‘sì' e i miei ‘no' erano fortemente condizionati e motivati dall'obbedienza ai genitori; un fatto naturale. Ora che sono adulto, gli stessi ‘sì' e gli stessi ‘no' li pronuncio non per l'ossequio ad una legge eteronoma, esterna a me, ma perché sono io a volere, o non volere; perché sono padrone di me stesso e perché la norma è autonoma, cioè interiore. Tornando alla fede, una volta raggiunta la maturità (della fede), dico e faccio cose non solo in nome di Cristo, ma in nome mio! La mia obbedienza a Dio coincide con la mia libertà di autodeterminazione. Non obbedire a Dio, non essere fedele alla fede - perdonate il bisticcio di parole - significherebbe non obbedire a me stesso, non essere fedele a me stesso! Un'allusione alla radicalità del profeta, e dell'apostolo in genere, la incontriamo anche nel Vangelo. "Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro.": la fede non ha paura di misurarsi con la differenza, senza pretese di convertire nessuno, ma solo di rendere ragione della speranza cristiana. È questo il mandato della Chiesa nel mondo di oggi: essere dovunque ambasciatori di speranza, il bene più prezioso e più fragile che c'è; senza la speranza non esiste futuro, e la storia finisce qui. Rimbocchiamoci le maniche, perché la messe è molta, e pochi gli operai... |