Omelia (22-07-2018) |
don Maurizio Prandi |
Uno sguardo vulnerabile Il tema che stiamo affrontando da un mese a questa parte è decisivo: il tema della fede! Fede di una donna che ci ha detto come sia fondamentale passare dalla magia alla relazione. Fede di un uomo che ci ha detto come sia importante restare nella relazione nonostante tutto sembri andare nella direzione contraria. Poi un passo ulteriore: la fede è accogliere Dio e precisamente quel Dio (fragile, debole, incapace di salvarsi da se stesso) che Gesù di Nazareth è venuto a rivelare. Un passo che, ricorderete certamente, gli abitanti di Nazareth non riescono a fare. Fede è, come diceva la preghiera Colletta di domenica scorsa non avere nulla di più caro di Gesù; una preghiera che lega ancora una volta la fede al mettere Gesù al centro. Oggi la pagina di Vangelo ci invita ad avere uno sguardo ampio, a passare da quello che facciamo ed insegniamo, per dirla con il linguaggio degli apostoli che vanno da Gesù, uno sguardo quindi che parte dal proprio operato, dai propri successi, ad uno sguardo sull'altro, uno sguardo che si lasci interpellare per arrivare a quel sentimento così alto e nobile che il vangelo chiama compassione. Su questo ascoltavo una riflessione di M. Recalcati che riferendosi a Gesù commenta quella frase che può fare anche fatica: il talento datelo a chi ne ha dieci, perché chi più ha più avrà; "chi più ha, cioè chi più si confronta in modo aperto con la vita, senza paura, più avrà... chi protegge invece il poco che ha, meno avrà!" Gesù guarda la folla e dal vangelo capiamo che le scelte possibili sono due: la compassione o l'indifferenza; tutto nasce da uno sguardo, da come Gesù guarda. Dipende da come guardiamo il mondo, le cose, la vita; c'è una responsabilità anche nello sguardo. Ripeto: l'indifferenza è ti giri dall'altra parte dicendo che quella folla non ti interessa, non è affar tuo. Ricordate il malcapitato e il levita e il sacerdote: se lo tocco? Diventerò impuro anche io! e con il culto nel tempio? Come faccio? No, non è affar mio quest'uomo picchiato, ferito, mezzo morto. C'è uno sguardo che è solamente "religioso" e c'è uno sguardo più ampio, che anche in situazioni meno evidenti va a cogliere la stanchezza, la fatica, gli smarrimenti, le paure di chi si trova di fronte. È lo sguardo di chi è capace di fermarsi e di dire: non posso girarmi dall'altra parte. Forse le persone oggi nella chiesa cercano proprio questo sguardo che è cuore, compassione, tenerezza. Alle volte penso (forse pensiamo nella chiesa) che sia sufficiente il ruolo, il titolo, e invece tutto dipende da come uno guarda e da come l'altro si sente guardato. Ricordate l'adultera? Come si sente guardata dagli uomini religiosi (Mosè ha detto) e come si sente guardata da Gesù, che con lo sguardo di quegli uomini non vuole avere niente a che fare? Ho trovato in un libro molto bello (Lo sguardo di Gesù, Qiqaion) questa definizione che mi piace tantissimo: quello di Gesù è uno sguardo vulnerabile, perché si lascia ferire dalle situazioni, dalle persone, dagli incontri. Torno ai discepoli, perché mi pare fondamentale il percorso che fanno in relazione al tema della fede che stiamo cercando di approfondire: l'importanza della relazione con Gesù, da lui sono mandati e a lui ritornano, riferiscono, si confrontano, vivono un rapporto. Accolgono con serietà un invito e con altrettanta serietà attendono una parola vera su quanto hanno operato. Si, c'è qualcosina da aggiustare perché è vero che sono un po' troppo centrati su quello che hanno fatto, ma è per questo che ci è necessario l'incontro con lui, la relazione con lui, perché non siamo noi ma i fratelli verso i quali siamo andati la verità della nostra relazione con Gesù (don D. Simonazzi). Dicendolo a Gesù riconosciamo che è lui che ci ha mandato, e tornando riconduciamo a lui (la seconda lettura di domenica scorsa) quello che noi siamo. |