Omelia (19-08-2018) |
don Alberto Brignoli |
Eucaristia: dono e impegno Comprendere Gesù non è mai facile. Ancor meno lo è in questo capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, la cui lettura volge al termine dopo un mese di faticosa comprensione delle affermazioni che lo stesso Giovanni mette in bocca a Gesù, a seguito della moltiplicazione dei pani e dei pesci per i cinquemila, nel deserto. Altre folle, ben più numerose, erano state sfamate nel deserto, nel corso della storia d'Israele, quando Dio, attraverso l'intercessione di Mosè, aveva dato "ai padri" la manna, un pane disceso dal cielo. Nonostante avessero potuto mangiare questo pane divino, magari ritenendolo fonte d'immortalità, i padri del popolo d'Israele morirono comunque, e soprattutto la maggior parte di essi non entrò neppure nella terra promessa, per cui alla fine la manna ha liberato il popolo dalla fame nel deserto, ma non ha inciso radicalmente nella vita degli israeliti: la loro esistenza non è stata "piena", perché si è conclusa con la morte. Beh, fino a prova contraria, ogni esistenza termine con la morte, e non per questo non può essere vissuta con pienezza! La pienezza di vita (o la vita eterna) di cui ci parla più volte il vangelo di oggi non va confusa con l'immortalità, né tantomeno con la vita futura, dataci come premio nella misura in cui mangiamo il Corpo di Cristo e beviamo il suo Sangue: sarebbe troppo facile conquistare l'accesso all'eternità con una quantità sempre maggiore di Comunioni Eucaristiche! La vita eterna di cui ci parla Giovanni è qualcosa di più, e si sperimenta già nella nostra vita presente, nella vita di ogni giorno. Occorre, però, saper guardare le cose con gli occhi di Dio, non con gli occhi degli uomini. Se ragionassimo in maniera puramente umana, la "vita eterna" coinciderebbe per noi con l'immortalità (è così fin dal peccato originale, commesso perché volevamo diventare immortali come Dio), oppure - se vi aggiungiamo un pizzico di visione religiosa della vita - con la vita che va oltre la morte, con l'eternità, con una vita "altra", priva della dimensione corporea, che continuerebbe al di là della morte. Dio però ragiona in maniera diversa. Gesù, nel vangelo di Giovanni, parla a più riprese, e in molte occasioni, di vita eterna, non nel senso di una vita immortale o capace di andare oltre la morte, ma nel senso di "vita piena", "vita in pienezza", "vita in abbondanza" come dice nel discorso del Buon Pastore (capitolo 10). E che cos'è questa "vita in abbondanza"? Fondamentalmente, significa una cosa sola: rimanere uniti a lui. Se rimaniamo uniti a lui, Buon Pastore, avremo vita in abbondanza; se rimarremo uniti a lui come il tralcio alla vite, daremo frutti abbondanti; se saremo una sola cosa con lui e con il Padre, il mondo crederà e sarà salvato. Sono tutte immagini e discorsi del vangelo di Giovanni. Oggi Gesù si spinge ancor più in là: per rimanere in lui, bisogna "mangiare la sua carne e bere il suo sangue". Questa affermazione verrà presa con non poca perplessità dai suoi uditori, i quali (e sarà la conclusione del capitolo che stiamo leggendo) alla fine decideranno di non seguirlo più, proprio per la durezza di certi discorsi. Noi dopo duemila anni comprendiamo queste cose alla luce dell'Eucaristia, ma chi ascoltava Gesù in quel momento non aveva ancora conosciuto la profondità del Mistero Eucaristico. L'unico modo per comprendere veramente quanto affermato da Gesù era di ripercorrere la storia della salvezza del popolo d'Israele: un popolo privilegiato rispetto a tutti gli altri popoli, perché aveva un Dio totalmente vicino a lui, ogni volta che lo invocava; un Dio capace di salvarlo dalla schiavitù dell'Egitto attraverso il sangue dell'agnello versato sugli stipiti delle case; un Dio capace di far scaturire acqua dalla roccia nel deserto; un Dio che, in quello stesso deserto, sfama il suo popolo con un pane piovuto dal cielo. Eppure, tutto questo non basta, perché i padri d'Israele nell'Esodo non sperimentarono la vita in abbondanza, ma solo una vita terrena che si concluse con la loro morte. A chi crede in Cristo, invece, viene data la possibilità di una vita "eterna", "piena", "in abbondanza". Come? Non solo sperimentando la vicinanza e i benefici di Dio verso il suo popolo, ma divenendo una sola cosa con lui, assimilandosi a lui, coincidendo con lui, come fanno cibi e bevande ogni volta che l'uomo li assume: ecco perché Gesù si fa cibo e bevanda di vita, perché assumendo il suo Corpo e il suo Sangue noi diventiamo una sola cosa con lui. Questa è, per il cristiano, la vita in abbondanza, la vita eterna: essere una sola cosa con Dio. Un dono straordinario, quello che Gesù ci fa attraverso l'Eucaristia: ma se pensiamo che per noi tutto finisca lì, ci sbagliamo di grosso. Questo dono comporta un impegno, una responsabilità: quella di farci a nostra volta dono per gli altri. Non dimentichiamo che questo discorso del pane di vita del capitolo 6 di Giovanni sostituisce il racconto dell'istituzione dell'Eucaristia nell'Ultima Cena, della quale diviene un complemento. Nell'Ultima Cena narrata da Giovanni, infatti, Gesù istituì un altro sacramento, quello dell'amore e del servizio, attraverso il gesto della lavanda dei piedi. Assimilarsi a lui mangiando il suo Corpo e bevendo il suo Sangue, allora, significa assimilarsi a lui anche nella dimensione dell'amore e del servizio: la responsabilità e l'impegno che derivano dal fare la Comunione ogni volta che partecipiamo all'Eucaristia non sono, quindi, cosa di poco conto. Pensiamoci, ogni volta che facciamo la Comunione: evitiamo di stare lontani dall'Eucaristia perché "non ci sentiamo degni", e piuttosto prendiamoci seriamente l'impegno di fare la Comunione con frequenza, sia ricevendo il Corpo di Cristo a messa sia mettendoci a servizio degli altri, rispettandoli, facendoci carico delle loro necessità, condividendo con tutti, specialmente con i più poveri, il pane di ogni giorno. Altrimenti, fare la Comunione anche frequentemente rischia di lasciare in noi il tempo che trova; e di certo, non ci rende una sola cosa con lui. |