Omelia (26-08-2018) |
don Alberto Brignoli |
Pensaci ancora tu, o Dio Una delle cose più brutte della vita è sperimentare il fallimento, soprattutto quando su un progetto o su un'idea hai investito parecchio: tempo, energie, risorse, sentimenti. Spendi del tempo per costruire qualcosa di importante, e nell'arco di pochi momenti, a volte a causa di fatti o di situazioni improvvise, tutto quanto si sgretola e va perduto. E se ti va bene, devi ricominciare tutto da capo: se ti va male, nemmeno hai la possibilità di rimanere in vita a narrarlo. Purtroppo, il fallimento è dietro l'angolo, è fatale: fa parte della nostra natura umana, e alla fine si impara anche ad accettarlo, sapendo che è da tenere in conto proprio come elemento della nostra caducità. C'è però un fallimento che brucia ancora di più, perché basato non su qualcosa di puramente umano (e quindi soggetto alla fine), ma su qualcosa che trascende la sfera dell'umano ed entra nella sfera del divino: è il fallimento della vita di fede. Sembra paradossale, per chi ha fede: eppure è molto più frequente di quanto pensiamo, anche (oserei dire soprattutto) tra coloro che hanno una vita religiosa molto intensa. Si sperimenta quando, pregando con assiduità - magari per chiedere una grazia - e partecipando in maniera intensa e frequente ai momenti di espressione religiosa personale e comunitaria della propria fede, all'improvviso (o magari dopo un lento processo fatto di ripensamenti e di entusiastiche riprese) si vedono e si sentono crollare le proprie certezze, le proprie convinzioni riguardo alla presenza di Dio nella propria vita. "Ma come? Ho sempre pregato tanto, non ho mai smesso di andare in chiesa, e perché mi capita questa cosa? E perché proprio a me? Perché non ho più voglia di pregare? Perché non sento più Dio così vicino a me quando lo prego? Perché Dio tace di fronte ai miei drammi e ai drammi dell'umanità? Perché Dio pretende questo, da me?": e potremmo continuare - e ognuno di noi potrebbe continuare - elencando gli interrogativi che frullano nella nostra mente nei più disparati momenti della nostra vita di fede. Momenti che spesso non si superano e che comportano l'abbandono della vita religiosa, soprattutto della pratica religiosa (la vita di fede, infatti, è ben altro, e difficilmente si perde, neppure quando la nostra vita è sopraffatta dal buio più totale). Il problema sta forse proprio in questa nostra concentrazione sulla pratica religiosa, quasi fosse coincidente con la fede: pensiamo di poter avere in mano Dio con le nostre preghiere, le nostre suppliche, la nostra partecipazione alla vita ecclesiale e sacramentale, così tanto da rimanere scioccati, allibiti, disgustati nel momento in cui ci accorgiamo che Dio "si comporta male con noi", che Dio non risponde più alle nostre aspettative, che Dio usa linguaggi e modalità troppo dure da comprendere. E allora, molto meglio dirgli "arrivederci e grazie", perché di fare la fatica di accettare un Dio diverso da come lo abbiamo sempre pregato, adorato e - in realtà - posseduto e tenuto tra le mani, non se ne parla nemmeno. Perché in fondo è questo, ciò che è avvenuto a Cafarnao al termine di tutta quella lunga vicenda che ha visto protagonista Gesù, le folle da lui sfamate con pochi pani e pochi pesci, le autorità religiose, e i suoi discepoli; vicenda che ha accompagnato pure noi in questo mese di torrida estate che ora volge al termine. Sembrerebbe concludersi tutto con il grande fallimento di Gesù: prima lo abbandonano le folle, che si accontentano di essere state da lui sfamate, e quando non c'è più modo di mangiare gratis vedono che è inutile seguirlo; poi se ne vanno i capi religiosi che rimangono scandalizzati dalle parole di un bestemmiatore che continua a paragonarsi al Dio dell'Esodo, anzi a volte si ritiene ancor più grande di lui; poi è la volta dei discepoli, di quelli che lo seguono ovunque egli vada, che sono con lui protagonisti attivi delle vicende che lo riguardano, che però lo seguono solo finché egli è comprensibile e risponde ai loro schemi, alle loro certezze, alla loro fede tradizionale legata all'esperienza dei loro padri, alla loro visione di un Dio servito e adorato dall'uomo, il quale da lui deve ricevere solo grazie e favori, e non impegno e responsabilità. Insomma, di un Dio che si mette a servizio dell'uomo e che chiede all'uomo di fare altrettanto nei confronti dei suoi fratelli, questi discepoli non sanno che farsene: e allora se ne vanno e lo lasciano da solo, e se ne vanno alla ricerca di un Dio che risponda ai loro schemi, molto meno impegnativo e molto più facile da comprendere, da seguire, e - in definitiva - da gestire e da tenere in pugno. Sembrerebbe essere giunto anche per Gesù il momento del fallimento totale, dal momento che addirittura inizia a sperimentare la possibilità concreta del tradimento da parte di uno dei suoi più stretti collaboratori, uno dei Dodici: ai quali, infatti, rivolge una domanda che non suona come smacco finale o come sfogo in un momento di totale depressione, ma come sfida, come provocazione verso un cammino di fede (e non di vita religiosa) che non è affatto finito. "Volete andarvene anche voi?": per Gesù non esiste alcun problema, se i suoi non gli vanno più dietro. Chi ci perde, non è certo lui, ma loro, perché non sperimenteranno la forza vitale che viene dallo Spirito e si concentreranno ancora sugli elementi "della carne", cioè di quel modo umano di intendere Dio in un rapporto di "retribuzione" e non di servizio. Ha provocato i Dodici fuori dalla sinagoga di Cafarnao, e ora provoca anche noi: chi se la sente di seguirlo anche se è difficile farlo e anche se quasi mai riusciamo a capirlo fino in fondo, faccia come Pietro, si affidi a lui e gli risponda non con certezze, ma con una domanda. "Signore, da chi andremo, se finora solo tu ci hai dato parole di vita eterna? Noi abbiamo creduto in te e in Dio tuo Padre. E allora, avanti: guidaci dove tu sai". |