Omelia (16-09-2018) |
diac. Vito Calella |
Vivere in perdita, vivere in lotta Vivere può essere paragonato a un camminare. Gesù e i discepoli sono in cammino. Pensiamoci dunque «lungo la via». Sulla strada del cammino della nostra esistenza siamo sempre sollecitati a rispondere a tanti interrogativi nella ricerca sul "senso della nostra vita". La domanda più intrigante, ma più rivoluzionaria che ci viene rivolta, non una volta per tutte, ma ad ogni fase del nostro cammino, è quella che Gesù ci pone quando liberamente scegliamo di metterci in ascolto orante della sua Parola: «Voi, chi dite che io sia?» Vivere di fede è come un «camminare dietro a Gesù, il Cristo». È una scelta libera, mia, tua, nostra. È una decisione da rinnovare giorno per giorno, anche perché non è scontata la conoscenza di Gesù, nonostante il nostro "si" a Lui detto nel passato. Pietro ce lo insegna oggi! Rispose bene: «Tu sei il Cristo!»; ma poi entrò in crisi e in conflitto con il suo Maestro, quando ascoltò le prime parole dette apertamente da Gesù sulla sua passione, morte e risurrezione. Non è facile scegliere Gesù ed essere suoi discepoli, in cammino dietro di Lui. Ognuno di noi si può identificare in quel «qualcuno»: «Se qualcuno vuol venire dietro a me». Se si sceglie di camminare dietro a Gesù, se ne assumono le conseguenze: si rischia di vivere «pensando le cose di Dio», cercando di andare oltre il pensiero «delle cose degli uomini». È un'avventura, perché il nostro camminare è sottoposto ad una continua tentazione: c'è sempre davanti a noi l'alternativa tra l'andare dietro a Gesù e il voler camminare davanti a Lui, mettendoci noi dalla parte di chi sa, diventando maestri di noi stessi, confidando nelle sicurezze del «pensare le cose degli uomini», diventando «Satana», cioè avversari, opposti alle cose di Dio. Identifichiamoci per un attimo in Pietro, per scoprire che, per quanto sembri facile diventare veri discepoli di Gesù, è tuttavia una sfida scombussolante, fatta di un'alternarsi tra «fiducia nelle cose di Dio» e «fiducia nelle cose degli uomini». Custodendo nel nostro cuore e nella nostra mente le parole forti di Gesù pronunciate sul suo destino a Gerusalemme e sulle esigenze della sua sequela, possiamo dire che le cose di Dio più intriganti sono due: «rinnegare se stessi e prendere la propria croce». Detto in altre parole: vivere in perdita (scegliere il cammino dell'umiltà) e vivere in lotta (prepararsi ad affrontare le persecuzioni, le avversità, predisporsi a «rendere la nostra faccia dura come pietra»). Scegliere di camminare dietro a Gesù è decidersi per la prima cosa di Dio: «rinnegare se stessi», cioè vivere in perdita. «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia la salverà. Infatti cosa giova al mondo guadagnare il mondo intero se perde la propria vita? Poiché cosa potrebbe dare l'uomo in cambio della propria vita?» (Mc 8, 35-37) Scegliere di camminare dietro a Gesù è accettare la seconda cosa di Dio: «prendere la propria croce», cioè prepararsi alla lotta. Il significato di questa "cosa di Dio" lo possiamo trovare nelle parole a seguire del proprio vangelo: «Chi si vergognerà di me e delle mie parole in mezzo a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui quando verrà nella gloria del Padre insieme ai suoi angeli santi» (Mc 8,38). Rinnegare se stessi è scegliere di vivere in perdita. È il cammino dell'umiltà percorso da Gesù, il quale sta davanti a noi come guida e maestro. La croce è rivelazione del radicale svuotamento di Gesù, della perdita di dignità, dell'apparente fallimento della sua missione. «Rinnegare se stessi» è un «vivere in perdita» in due sensi. Il primo senso è questo: imparare dai lutti della nostra vita ad avere un cuore mite, spossessato della terra, cioè slegato da tutto ciò che ci lega a questo mondo: denaro, conquiste, progetti, casa, famiglia. Non nel senso di diventare indifferenti e apatici, senza affetti, senza relazioni verso persone e cose che ci appartengono giustamente, ma nel senso di sentire profondamente dentro di noi che nulla ci appartiene, nulla è nostro, nemmeno la nostra stessa vita, tanto meno la vita dei nostri cari, tanto meno le cose nostre, frutto del nostro lavoro: tutto passa. Tutto è avvolto in un mistero di precarietà: la nostra salute sta sempre sulla soglia della malattia, le nostre sicurezze sono sempre minacciate dal loro dissolversi, la nostra stessa vita sta sempre di fronte all'orizzonte sicuro e implacabile della morte. Sentire la "non appartenenza" di ogni persona e cosa con cui siamo necessariamente in relazione, con cuore libero e slegato, è contemplare e accettare la precarietà e il limite per accoglierlo in noi come dono, così come si dà qui ed ora: nulla ci appartiene, ma tutto è dono. Pensiamo al "dono" di Gesù sulla croce: drammatica bellezza. Quanto più il dono diventa fragile, ridotto al nulla, svuotato di ogni possibilità del nostro controllo umano, della nostro potenza di dominio o anche di cura, quanto più il dono ci rende impotenti, tanto più ci avviciniamo all'esperienza paradossale, direi mistica, di contemplare che tutto non è abbandonato al nulla, al non senso, ma è ospitato nel corpo trasfigurato del Risorto, nel dono dello Spirito Santo. Cos'è il dono per noi dello Spirito Santo se non quel corpo fisico di Gesù «che presentò il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che gli strapparono la barba, la faccia esposta agli sputi e agli insulti», quel corpo consegnato alla crudeltà della croce, ma ora trasfigurato, trasformato, spiritualizzato? Il dono dello Spirito Santo offerto a noi a partire della risurrezione di Gesù non è solo la forza della gratuità dell'amore divino che unisce eternamente il Padre e il Figlio nel mistero della Trinità, ma è questa stessa forza di gratuità che ha fatto concepire il Figlio eterno nel grembo di Maria, che ha unto la corporeità storica di Gesù di Nazareth nel giorno del Battesimo al Giordano, che ha vivificato per sempre quel corpo umano come il nostro, quel corpo crocifisso, rendendolo corpo spirituale. È questo corpo spirituale del Risorto che si dona alla nostra umanità, sceglie di abitare nella precarietà del nostro corpo, nella limitatezza di tutto ciò che non è Dio, per dare lo stesso destino di gloria alla nostra povertà. Ecco dunque che tutto è dono anche nella assurdità di una malattia grave e possiamo contemplare Gesù presente nel povero, nell'ultimo di questo mondo, anche nel dono di una vita oramai segnata irreversibilmente dalla sofferenza più insensata. Umanamente ci ribelliamo e ci arrabbiamo con Dio quando siamo costretti a convivere con esperienze di limite, come Pietro si ribellò davanti a Gesù. In un atteggiamento mistico di libertà di cuore, di non appartenenza, intuiamo, senza capire perfettamente con la nostra logica del "pensare umano", intuiamo la Presenza dello Spirito di Cristo risorto nel tempio vivo di ogni corpo umano. Il corpo crocifisso di Gesù, già corpo glorificato, è ora corpo vivo in noi, nel dono dello Spirito Santo; è segno di speranza per noi e soprattutto per ogni crocifisso della storia, per ogni fratello e sorella oppresso da una situazione di estrema povertà umana. La presenza del Risorto nella carne dei poveri, degli ultimi, è presenza che suscita in noi la consegna fiduciosa in Dio, per trasformare anche una esperienza dolorosa di sofferenza in un «perdersi» di gratuità. È la sfida del «gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date». È il secondo senso del «perdersi»: perseverare nella gratuità di fronte alle perdite della nostra vita. Da una profonda esperienza di limite, di "lutto", in comunione con l'esperienza di Gesù crocifisso, possiamo irradiare pura gratuità, dono senza ritorno, nella nostra fedele perseveranza di esserci, di stare vicino a chi soffre con tutta la nostra impotenza e con tutta la nostra fatica di capire, con tutti i nostri dubbi, con la consegna che siamo chiamati a fare solo ed esclusivamente nel Padre, perché nulla si perde in questa corrente del nostro perderci per l'altro. Ecco l'opera più bella che accompagna la nostra fede. Prendere la propria croce è vivere in lotta. La croce da portare è il «il non vergognarsi di Gesù». Conviviamo ogni giorno con amici e famigliari che non credono. Per il principio della gratuità rispettiamo la libertà dell'altro. Ma non dimentichiamo che da sempre «credere in Gesù» è la nostra croce da portare di fronte al mondo definito dall'evangelista Marco «generazione adultera e peccatrice». Conviviamo ogni giorno con un sistema strutturato di egoismo, che è la logica dello scambio di mercato, capace di ridurre ogni persona a oggetto manipolabile e a numero impersonale, senza il minimo rispetto della sua dignità. Viviamo in una società in cui "fidarsi è bene, non fidarsi è meglio", oppure "non si dà niente per niente": tutto è calcolato per un tornaconto personale a difesa del proprio interesse. Conviviamo in un mondo in cui essere praticanti fedeli della comunità cristiana può diventare oggetto di derisione e di scherno tra gli amici. Percepiamo a fior di pelle la pesantezza di un sistema burocratico e finanziario retto dall'idolatria del denaro che ci sbatte in faccia ingiustizie implacabili contro la dignità dell'uomo e della natura. Questa è la nostra croce da portare facendo la nostra faccia dura come pietra: non vergognarsi di essere cristiani. Vivere in perdita, vivere in lotta sia dunque il nostro camminare alla presenza del Signore in questa terra dei viventi. |