Omelia (23-09-2018) |
mons. Roberto Brunelli |
Un metro per misurare chi è il più grande L'abbiamo sentito domenica scorsa: Gesù ha chiamato addirittura "satana" l'apostolo Pietro che invece di "pensare secondo Dio" inseguiva suoi calcoli umani Ma non è bastato: nel vangelo odierno (Marco 9,30-37) ritroviamo Gesù intento a istruire gli apostoli, in particolare preparandoli agli eventi prossimi, così diversi da quelli che essi si attendevano dal Messia. Eccolo allora ribadire che lui, "il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà". Questa predizione della sua Pasqua si scontra con la greve umanità di coloro che pure lui stesso ha scelto come primi collaboratori. Essi insistono nell'aggrapparsi all'opinione corrente di un Messia politico, il quale, cacciati i Romani occupanti, restaurerà l'antico regno d'Israele, indipendente e glorioso come quello di Davide e di Salomone. Sono così radicati in questa prospettiva, che invece di badare alle parole del Messia discutono tra loro su chi sia il più grande, e dunque, nel regno tutto terreno che il Messia ritengono stia per fondare, a chi di loro toccherà il posto più importante. A tanta grettezza noi forse risponderemmo con qualche mala parola. Invece Gesù torna pazientemente a spiegare e, come usavano fare gli antichi profeti, accompagna le sue parole con un gesto esemplificativo: abbraccia un bambino e li invita a fare altrettanto, per amor suo. I bambini allora erano privi di rilevanza giuridica e sociale; perciò un bambino si prestava ad essere il simbolo degli emarginati, dei tanti che "non contano". In quel bambino, Gesù li abbraccia tutti, e invita tutti i suoi seguaci a fare altrettanto. Quale cambio di prospettiva! Il più grande è chi accoglie nella propria mente e nel proprio cuore quanti non godono di privilegi, quanti nella società stanno un passo (o due, o tre, e spesso di più) dietro agli altri. Nel mondo nuovo che Gesù instaura, l'importanza di una persona non si misura dal suo potere, dal suo danaro, dal suo successo, ma dalla disponibilità, dall'impegno a fare giustizia, ad alleviare le condizioni dei meno fortunati. Così ha fatto lui, e dopo di lui una schiera di uomini e donne che hanno cercato di imitarlo. In virtù del loro impegno, questo rivoluzionario principio in duemila anni ha cambiato il mondo; oggi formalmente tutti, e non solo i cristiani, condannano certi atteggiamenti e criteri di vita che un tempo erano ritenuti normali (la discriminazione delle donne, gli abusi sui minori, la schiavitù, il dispotismo eccetera); almeno a parole, oggi tutti riconoscono che la fame nel mondo è frutto di un'ingiustizia da sanare, ed è pacifico che chi è investito di autorità non dovrebbe operare per l'utile proprio ma per il bene comune. Insomma, sull'antico criterio dello sfruttare gli altri a proprio vantaggio (o, quando andava bene, dell'indifferenza per le condizioni altrui) oggi trionfa il criterio prettamente cristiano del servire. Trionfa negli enunciati delle leggi e nelle dichiarazioni pubbliche; se però si guarda ai fatti, si rischia di deprimersi costatando la loro difformità rispetto ai principi. Ne deriva l'impegno, per ogni uomo che voglia essere tale, ad adeguare il proprio comportamento ai principi che un'onesta intelligenza riconosce giusti. E ciò vale in prima linea per la Chiesa, che da sempre proclama l'autorità come servizio (la sua massima autorità, il papa, porta ufficialmente il titolo di "servo dei servi di Dio") e prevede figure a ciò specificamente deputate (sono ancora poco conosciuti, ma ci sono anche tra noi i diaconi permanenti: e compito specifico del diacono è proprio il servire). L'impegno vale però anche per gli altri cristiani, per tutti i battezzati, se vogliono ritenersi seguaci del Figlio di Dio, il quale è venuto tra noi, come ha dichiarato lui stesso (Vangelo secondo Marco 10,45), non per essere servito ma per servire. Sino a dare la vita. |