Omelia (23-09-2018) |
diac. Vito Calella |
Ospitati da Gesù crocifisso, ospitanti degli ultimi, per diventare comunità ospitale Siamo tutti ospitati in Gesù crocifisso. Domenica scorsa abbiamo ascoltato il primo annuncio della passione, morte e risurrezione, pronunciato apertamente da Gesù mentre era in cammino verso Gerusalemme, assieme ai suoi discepoli. Custodendo in noi questo secondo annuncio contempliamo il crocifisso esposto artisticamente al centro della nostra chiesa e pensiamo al "farsi ultimo" di Gesù, per chiedere allo Spirito del Risorto, presente dentro di noi, di aiutarci "a farci ultimi" come Lui. Farsi ultimi come Gesù crocifisso è diventare ospitali. O Spirito del Risorto, dacci il coraggio di fare dell'ospitalità una regola di vita del nostro essere discepoli di Gesù, per vivere in pace e in unità tra noi, chiamati ad essere, tutti insieme come comunità, corpo ospitante di Cristo nella vita di ogni giorno, nella storia complessa di questo mondo. Gesù crocifisso, fattosi ultimo tra gli ultimi, inchiodato come un malfattore, denudato della sua dignità di uomo e di Dio, nel momento culminante della sua morte di croce ha praticato l'ospitalità più difficile e radicale: il perdono, cioè l'accoglienza senza riserve, nel suo cuore misericordioso, di tutta l'umanità, includendo quei grandi, quei primi, quelle autorità religiose e politiche che programmarono astutamente la sua morte violenta. Il cuore misericordioso del Padre nel cuore misericordioso del Figlio crocifisso è un cuore dilatato all'ospitalità di tutti, non escluso nessuno, per donare salvezza e vita con il dono della gratuità del suo amore. Siamo invitati da Gesù a scegliere di ospitare gli ultimi. Nella trama del racconto di Marco, oggi appare improvvisamente, dal nulla, un personaggio insignificante, inaspettato, senza nome: un bambino. Identifichiamoci per un attimo nell'iniziativa di Gesù: «Preso un bambino, lo pose in mezzo, lo abbracciò». Nella cultura del tempo, i bambini erano poco considerati, erano gli ultimi nel contesto sociale dell'epoca, non si dava loro tanta attenzione, finché non fossero diventati adulti, per contare qualcosa nella società. Prima di ospitare tutti nel suo cuore misericordioso, sulla croce, Gesù ospitò nel suo corpo umano un bambino apparso dal nulla, senza nome, lo mise al centro, lo appoggiò al suo petto, lo abbracciò, lo ospitò fisicamente nella sua persona al punto tale da identificarsi con lui: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato». Con questo gesto inaspettato Gesù ci invita a diventare ospitali, per ospitare lui e con lui il Padre. Ci invita a diventare ospitali non a parole, ma nei fatti, ospitando coloro che oggi, in mezzo a noi, non contano nulla: gli ultimi. Contempliamo allora in quel bambino ospitato da Gesù qualcuno insignificante agli occhi del mondo; identifichiamolo negli ultimi che ci sono in mezzo a noi, vivono con noi, ultimi che incrociamo nel cammino della nostra vita: i migranti negri africani, i profughi di guerra, gli ammalati fisici e mentali, i giovani sbandati, i depressi, gli anziani abbandonati, le vedove, i crocifissi della storia di oggi. Comprendiamo che la parola "ospitalità" ci sta un po' scomoda, ci mette in crisi, ci provoca ad andare controcorrente rispetto ad una mentalità di difesa del proprio territorio esistenziale, di fronte alla logica dominante del garantirsi spazi di sicurezza che non mettano a rischio i nostri interessi, le cose che abbiamo, il nostro benessere materiale. Basta una sola esperienza di accoglienza sincera di uno di questi ultimi, per allenarci ogni giorno ad essere ultimi, a non volerci sentire mai «i più grandi» o «i primi». Senza una ospitalità concreta di qualcuno di questi «ultimi», sarà difficile «essere ultimi e servi di tutti». Siamo chiamati a ospitarci gli uni gli altri, per essere comunità in uscita, Corpo di carità. Ogni membro del Corpo di Cristo, vescovo, prete, diacono, catechista, animatore di qualsiasi gruppo, trasformato dall'ospitalità concreta di un ultimo di questo mondo, sarà allora promotore di relazioni di ospitalità che riescono a controllare quelle passioni distruttrici e dannose denunciate dall'apostolo Giacomo: gelosie, spirito di competizione, invidie. Il quadro drammatico della comunità cristiana descritto da Giacomo è un campanello d'allarme per la nostra comunità. Praticando invece l'ospitalità degli ultimi diventeremo artigiani di pace, di unità nella carità tra noi e di una comunità non chiusa in se stessa, ma sempre in uscita, Corpo di carità in questo mondo. |