Omelia (21-10-2018) |
diac. Vito Calella |
Missione «combattere, consegnarsi, condividere» In questa domenica siamo invitati a meditare sul senso del nostro essere missionari e lo vogliamo fare custodendo in noi l'esempio di Gesù, il «Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per la moltitudine». La missione non è più delegata soltanto a coloro che partono per annunciare il vangelo ad altri popoli, ma è la testimonianza del nostro vivere, tutti insieme come Corpo di Cristo, la sfida del dare la vita, per dare un tocco di qualità alle nostre relazioni con gli altri, in tutti gli ambienti del nostro vivere quotidiano. La missione a cui siamo chiamati è riassumibile in tre «C»: combattere, consegnarsi, condividere. Combattere: è la lotta spirituale e quotidiana per dominare dentro di noi quel desiderio di gloria, di autoaffermazione, di voler essere riconosciuti migliori e più grandi degli altri. Nel mondo della rete dei nostri cellulari, compagni inseparabili di viaggio, oggi vale chi riceve più visualizzazioni di ciò che lui mette in internet e contabilizza il maggior numero di «like». In noi domina l'istinto di difendere il nostro territorio, le nostre cose, le nostre conquiste, mostrandoci più forti e più grandi degli altri. Le nostre relazioni sono calcolate, misurate in base ai nostri interessi e al tornaconto personale. Questo combattimento interiore lo possiamo intravvedere anche nel cuore degli amici più intimi di Gesù, in Giacomo e Giovanni, che insieme a Pietro erano spesso scelti dal Maestro per vivere esperienze speciali e privilegiate, come quella della risurrezione della figlia di Gairo o della trasfigurazione di Gesù sul monte. Il sedere alla destra e alla sinistra del Cristo glorioso, quando lui si sarebbe finalmente seduto sul trono della gloria del Regno di Dio, era un desiderio umano di potere e di autoaffermazione rispetto agli altri, e creò un conflitto e una divisione con il resto del gruppo dei dodici, i quali «si sdegnarono con Giacomo e Giovanni». Nella richiesta dei due fratelli contempliamo il teatro dei giochi economici e politici di potere a cui assistiamo per televisione. Gesù radunò a sé i dodici e disse loro: «Fra voi non è così: chi vuol essere il più grande tra voi si farà il vostro servitore». Diventiamo dunque «diaconi» gli uni degli altri, coloriamo cioè di gesti gratuiti il nostro stare e lavorare insieme, volendo scomparire più che apparire, facendo ardere il nostro cuore con il fuoco della carità, di quella fraternità che viene dallo Spirito Santo e non solo dalla nostra buona volontà, condizionata di desideri egoistici. Chiediamo l'aiuto dello Spirito Santo per combattere l'istinto di potere che cova dentro di noi ripetendo l'invocazione del salmo: «Donaci Signore la tua grazia, in te speriamo». Consegnarsi: riusciamo a servire solo scegliendo liberamente di non appartenere più a noi stessi, ma di sentirci appartenenti a Dio nostro Padre, così come lo schiavo, al tempo di Gesù, era proprietà del suo padrone. Ma con Dio nostro Padre non ci sentiamo schiacciati e sottomessi. Lui è il Signore della vita. Sotto di lui, come fragili creature possiamo vivere le nostre relazioni con le cose e soprattutto con le persone della nostra rete di rapporti, consapevoli che "tutto ci è stato donato" e "nulla ci appartiene" come proprietà. L'altro non è un nemico da cui difenderci, nemmeno un commerciante con cui fare contratti di scambio di interessi, nemmeno proprietà a nostro uso e consumo. L'altro è dono per me con la sua bellezza rivestita anche lei di tanta sofferenza e precarietà, come me. Ci consegniamo a Dio consegnandoci agli altri perché solo Dio Padre è il «Primo», è la fonte della gratuità dell'amore. «Chi vuol essere il primo tra voi sarà lo schiavo di tutti»: sia il consegnato a tutti, sia come un semplice e umile pacchetto regalo, presenza di dono con tutto ciò che ha e con tutto ciò che è, perché tutto gli è stato donato. Chiediamo a Dio Padre di vivere lo stupore del "tutto è dono" ripetendo le parole del salmo: «Della tua grazia è piena la terra», per diventare dono per gli altri. Condividere: è la testimonianza più bella, frutto del nostro scomparire a noi stessi e del nostro consegnarci come dono. Assumiamo la sofferenza degli altri come Gesù, il nostro sommo sacerdote che «compatì le nostre infermità, egli stesso provato in ogni cosa come noi, escluso il peccato»; come Gesù Servo sofferente, «uomo dei dolori che ben conosce il patire, che offre se stesso in espiazione» e ha donato se stesso nella morte di croce «in riscatto» per tutti noi. Condividere è un perdersi nella sofferenza dell'altro, facendosela propria: è forse questa l'esperienza di comunione più profonda che costruisce la vera unità nella carità che salva il mondo. |