Omelia (02-11-2018)
don Alberto Brignoli
Tra punti interrogativi e punti esclamativi

Mentre quando scriviamo, siamo obbligati a usarli, quando parliamo, usiamo poco o nulla i segni di punteggiatura. Infatti, soprattutto le persone tra di noi più loquaci, quando iniziamo un discorso (a meno che lo stiamo leggendo) tiriamo dritto, a volte senza neppure tirare il fiato, a volte senza ascoltare chi ci vuole interrompere per dire la sua, a volte raccontando cose senza senso che, se avessimo la possibilità di mettere qualche punto, o punto e virgola, tra le parole che usiamo, faremmo del bene a noi stessi e a chi ci ascolta. Perché fermarsi in silenzio a ragionare, e farlo prima di iniziare a parlare, sappiamo bene quanto possa essere importante e produttivo, per tutti. Magari poi il silenzio dura poco, e si riprende a sbraitare, a parlare in maniera spropositata, anche in quei luoghi (come i cimiteri, o le chiese) dove conservare il silenzio, è un dovere sacrosanto.
Terminato il silenzio (ammesso che siamo riusciti a farlo), si prende a parlare, dicevo: e nel parlare, gli unici due segni di punteggiatura che certamente tutti usiamo, e anche con una certa frequenza, sono il punto esclamativo e il punto interrogativo. Esclamiamo per chiamare qualcuno, o perché siamo arrabbiati, o perché vogliamo comandare qualcosa, o per chiedere aiuto; usiamo il punto interrogativo ogni volta che dobbiamo formulare una domanda, dalle più banali ("Come stai?") a quelle più profonde, che in genere iniziano con l'avverbio "Perché?". E tra l'altro, a volte, non vanno oltre: molte nostre domande si riducono a quella piccola parola, "Perché?".
Quanti "perché" lasciati senza risposta, ogni giorno, dentro e intorno a noi, qui e in ogni angolo della terra. Domande che non trovano risposta, che trovano solo un grande silenzio, al quale, poi, seguono i punti esclamativi della rabbia, della rassegnazione, della protesta. E poi, ancora silenzi. A chi di noi non è mai capitato di chiedersi "Perché?" di fronte, ad esempio, al dolore immotivato o innocente? E chi di noi non ha provato, di fronte a questo, il vuoto di un silenzio così pesante da sembrare addirittura assordante? E poi ancora, i punti esclamativi della rabbia ("No, non è giusto!"), della rassegnazione ("Basta, basta, per l'amor di Dio!"), della protesta ("Dio mi ha lasciato solo!"). Magari ogni tanto uscisse anche l'urlo della richiesta d'aiuto! Non saremmo così soli! Invece, ancora una volta, il silenzio. Eppure, una soluzione ci deve essere, in tutto questo ingarbugliato guazzabuglio di silenzi, punti interrogativi e punti esclamativi! Certo, arriva la morte, arriva per tutti: ma deve proprio essere l'ultima e definitiva parola?
La parabola di Giobbe (di cui abbiamo avuto un assaggio nella prima lettura) è il paradigma, l'emblema della parabola della vita di ognuno di noi. Uomo che cercava onestamente di fare il proprio dovere, fin troppo scrupoloso nella ricerca della perfezione, benedetto da Dio con ogni tipo di fortuna, per un'incomprensibile sfida tra Dio e satana viene duramente colpito in tutto ciò che ha, e nonostante tutto questo, all'inizio, non ha parole irriguardose nei confronti di Dio, anzi: continua a lodarlo e benedirlo. E sceglie la via di un rassegnato silenzio, anche di fronte alla moglie che, con tanto sano realismo tutto femminile, lo invita a mettere da parte la sua devozione nei confronti di un Dio che, di paterno, non ha proprio nulla.
Ma Giobbe non protesta, non si arrabbia, non usa punti esclamativi contro Dio, almeno fino a quando gli amici che vengono a consolarlo insinuano che il suo non era proprio un dolore innocente, anzi: dietro la sua apparente semplicità e pietà si nascondeva un cuore perverso e lontano da Dio. E qui, Giobbe grida la sua rabbia e la sua disperazione: sì, perché finché ci tocca subire ingiustamente una disgrazia, sarà dura da accettare, ma alla fine ci si rassegna; ma sentirci dire che quello che avviene è colpa nostra, che ce la siamo cercata, quando proprio non avevamo fatto nulla, questo no. Questo è troppo! E allora scatta la rabbia, la protesta la bestemmia, l'indignazione nei confronti di un Dio che continua vergognosamente a fare silenzio.
Eppure, Giobbe una soluzione a tutto questo la deve trovare, e la trova. La trova nella rinnovata fiducia in un Dio che, nei suoi confronti, crede che agirà come un vendicatore, come uno che paga un riscatto per lui, come uno che fa una spedizione per liberare questo prigioniero. E vorrebbe che questa cosa, che altro non è se non fede, rimanesse impressa per sempre sulla roccia, a perenne memoria per coloro che, ogni giorno, in ogni parte del mondo, soffrono ingiustamente senza trovare una risposta: "Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio".
Giobbe vede già tutto nell'ottica della risurrezione, già parecchi secoli prima di Cristo. Ma a noi non piace attendere la resurrezione finale per vedere che Dio è il nostro redentore, il nostro vendicatore, colui che ci riscatta dalle mani dei nemici a prezzo del suo sangue. Ci piace invece vivere la vita con le sue gioie e con i suoi dolori, in mezzo a ombre di morte e sprazzi di entusiasmo, camminando come lungo un sentiero che si apre in mezzo a un bosco lastricato di foglie morte, ma reso così straordinariamente bello dai colori dell'autunno; come di fronte a vecchie fotografie di persone che mi fanno piangere perché non ci sono più, mai che mi fanno sorridere quando penso a quanti mi abbiano voluto bene; come immersi nella sabbia di una clessidra che segna inesorabilmente il passare del tempo, e ci ricorda che purtroppo (o meglio, per fortuna) non siamo eterni.
Allora, anche i punti interrogativi potranno diventare punti esclamativi; e quando la vita mi porterà a chiedermi "Perché?", avrò la possibilità di rispondere "Perché so che il mio redentore è vivo!".