Omelia (04-11-2018) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Eloquenza dell'amore La famosissima espressione di Giovanni ammonisce: "Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede" poiché è nel fratello che ci sta accanto che possiamo riscontrare la presenza ineffabile di Dio. Del resto Dio stesso è amore e nell'amore in lui si confida; sempre per mezzo dell'amore con lui si comunica. Amare Dio è possibile certamente anche dal punto di vista spirituale, per mezzo della preghiera e dell'intimità con lui, come pure nei Sacramenti e per mezzo di pratiche devote e religiose; tuttavia ciò non è sufficiente poiché l'amore richiede anche impegno, rinuncia a se stessi, sacrificio, talvolta anche superamento delle proprie convinzioni per entrare in empatia con l'altro. L'amore è caratterizzato insomma dalla concretezza e dall'abnegazione con cui ci protendiamo verso l'altro; ecco il motivo per cui per amare Dio occorre che ci prodighiamo disinteressatamente per il prossimo. Con la stessa intensità con cui sì viene amati, così si è capaci di donarsi. Questa è del resto la logica dello stesso Signore, il quale ha amato lui per primo, non abbandonando il suo popolo al peccato, ma intervenendo sempre a suo favore nella storia della salvezza. Dio è intervenuto in difesa del suo popolo, per esempio, liberandolo dalla condizione servile in cui lo vessava la schiavitù in Egitto, sostenendolo durante la sua peregrinazione nel deserto, conducendolo lietamente alla terra promessa. E soprattutto in Gesù Cristo suo Figlio crocifisso e risorto Dio si è interamente concesso al suo popolo e al mondo intero. Se Dio ci ha amati per primo, se è stata sua la libera iniziativa primaria di recuperarci alla vita e di riscattarci, se la sua provvidenza e il suo continuo sostegno ci accompagnano nei percorsi della nostra vita, non possiamo che corrispondere nello stesso dinamismo dell'amore: amare anche noi lui come lui ha dimostrato di amarci, nella realtà concreta dell'amore verso il prossimo. Appunto questo è il monito del Grande Comandamento il cui ascolto si introduceva con lo "Shemà Israel", Ascolta Israele, che introducendo qualsiasi atto di orazione degli Israeliti riunti nel tempio, invitava a ricordare i benefici di cui il popolo era stato reso oggetto da Dio, a considerare quanto Dio amasse il suo popolo e ricordava che il vero Comandamento consiste nell'amore congiunto di Dio e del prossimo. Si insiste nel brano soprattutto nella necessità che si osservino i Comandamenti, che sono il canale di comunicazione con il Signore, ma qual è il culmine di tutti i Comandamenti e dell'intera legge divina se non la concretezza dell'amore verso il prossimo? Si aggiunge poi "ama il tuo prossimo come te stesso", con la pedagogia eloquente che l'amore verso Dio e verso gli altri è comprensivo dell'amore verso se stessi, cioè il bene che coltiviamo per la nostra persona fisica, per il nostro spirito, per la nostra mente. Non è possibile donarsi agli altri con schiettezza e trasparenza quando non si è capaci di nutrire sufficiente cura per se stessi e lo stesso amore verso Dio e verso il prossimo ci incoraggia anche in questo senso. Gesù tuttavia, nel suo "comandamento nuovo" che consegna ai suoi discepoli che ne diventano eredi e dispensatori pone un nuovo termine di paragone, una motivazione ancora più eloquente: "Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi"; "Come ho fatto io, così fate anche voi", seppure è legittimo che lo si chiami "maestro", poiché in effetti Gesù è tale di diritto, la sua prassi è quella di stare in mezzo a tutti come colui che serve, quella di donare e di servire fino alla fine. Quindi sulla base della sua esemplarità di vita occorre che anche noi ci disponiamo ad amarci vicendevolmente gli uni gli altri. La difficoltà vera risiede nella messa in pratica di quanto ci viene insegnato in tal proposito. Come infatti vivere l'intensità dell'amore per il prossimo considerando che nell'altro vi è il Dio invisibile? Come protenderci con serietà e disinteresse verso gli altri, nella convinzione di avere dei debiti con Dio da estinguere in rapporto all'amore? In primo luogo sorge spontaneo che occorre che assumiamo seria consapevolezza di essere stati davvero amati da Dio, di essere stati destinatari di favori e di benefici che non meritavamo e di essere stati raggiunti dalla misericordia che solo un Dio Amore e Misericordia rende possibile, considerando il nostro peccato e le nostre imperfezioni. Se infatti noi fossimo radicalmente convinti di avere ricevuto l'amore, spontaneamente saremmo capaci di amare senza riserve e con abnegazione. Ma soprattutto sapremmo vedere nell'altro un altro "me stesso" per il quale rivendicare gli stessi diritti lottando per i medesimi obiettivi. Guardare l'altro come presenza di Dio immaginando che si tratti di me stesso probabilmente indurrebbe a considerare con maggiore attenzione la necessità che ci automotiviamo verso il prossimo senza riserve e senza distinzioni, donando interamente noi stessi come lui si è donato a noi. In terzo luogo, la concretezza dell'amore ci proviene dalla realtà di fatto che "c'è più gioia nel dare che nel ricevere" (At 20, 35) e dall'esperienza stessa che il bene fatto soprattutto ai deboli e agli indigenti, quando fatto nello sprone della fede in Dio, è sempre foriero di soddisfazioni e trova in se stesso la sua ricompensa. |