Omelia (18-11-2018) |
diac. Vito Calella |
Un «già» da scoprire e accettare e un «non ancora» da sperare L'evangelista Marco racconta nel capitolo 11, 15-19 l'episodio in cui Gesù, con forza, scacciò fuori dal tempio di Gerusalemme tutti i venditori di animali con uccelli e i cambiavalute. Prima di fare quell'azione radicale di "pulizia", Gesù aveva pronunciato parole di maledizione contro un fico, pieno di foglie ma senza frutti. Aveva fame e quel fico non lo aveva saziato (Mc 11, 12-14). Dopo l'episodio della scacciata dei mercanti dal tempio, Gesù e i discepoli passarono di nuovo vicino a quel fico e lo trovarono già disseccato (Mc 11, 20-21). Quel fico disseccato rappresenta la struttura del tempio di Gerusalemme, destinata alla insignificanza e alla distruzione. La distruzione materiale del tempio avvenne di fatto con la guerra giudaica, nell'anno 70 d.C., circa trent'anni dopo la morte e risurrezione di Gesù, corrispondente al periodo in cui Marco, da Roma, scrisse il Vangelo. L'insignificanza di ciò che si celebrava in quel tempio ce la sta spiegando lettura continua della lettera agli Ebrei in queste domeniche: la morte di Gesù in croce e la sua risurrezione sono stati un evento rivoluzionario per la storia dell'umanità. L'offerta del corpo e del sangue di Gesù crocifisso e la risurrezione di quel corpo, sacrificato per noi uomini e per la nostra salvezza, annullò la necessità e il senso di tutti i sacrifici di animali che i sacerdoti facevano ogni giorno in quel grandioso tempio di Gerusalemme. Nel vangelo di oggi la parabola del fico si può interpretare come un insegnamento di Gesù sulla sua stessa persona. Egli si paragona a un fico apparentemente secco e ci dice: «quando già il suo ramo si fa tenero e spuntano le foglie, sapete che l'estate è vicina» ( Mc 13, 28-29) Il fico fiorito rappresenta l'evento della morte e risurrezione di Gesù avvenuto una volta per tutte. L'estate rappresenta la pienezza del tempo, ricco dei doni e dei frutti dello Spirito Santo donati dal Cristo risorto a tutti noi. Nel fico ancora senza foglie, reduce dal freddo dell'inverno contempliamo il passaggio duro della morte di croce. Nei germogli delle nuove foglie vediamo il corpo crocifisso di Gesù ora vivente per sempre. La parabola del fico è l'evento già avvenuto una volta per tutte nella storia dell'umanità, descritto così nella lettera agli Ebrei: «Cristo, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati una volta per sempre, si è assiso alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici siano posti sotto i suoi piedi» (Eb 10, 12-13). Per questo Gesù disse: «Non passerà questa generazione prima che tutte queste cose siano avvenute» (Mc 13, 30): di fatto avvenne l'evento della sua morte e risurrezione e avvenne la distruzione del tempio di Gerusalemme. C'è un «già» da scoprire e un «non ancora» da sperare. Il «già» da scoprire è la nostra santificazione e la nostra consacrazione sacerdotale. Custodiamo nel cuore e nella mente la Parola di Dio che ci dice oggi: «Gesù, con un'unica oblazione, ha reso perfetti per sempre coloro che ha santificati» (Eb 10,18). Noi siamo tra coloro che Gesù ha «già» santificato con il dono del suo Spirito: la gratuità dell'amore di Dio è «già» stata donata e riversata nei nostri cuori (Rm 5,5). È «già» a disposizione come forza vitale che può trasformare tutte le nostre relazioni. Riconoscendo il dono dello Spirito Santo, mediante la nostra adesione di fede a Gesù morto e risuscitato, noi siamo «resi perfetti»: è l'espressione usata dalla lettera agli Ebrei per indicare la nostra consacrazione sacerdotale. Siamo tutti «già» sacerdoti come Gesù, chiamati a fare della nostra vita (con il nostro corpo, tempio vivo dello Spirito Santo), una testimonianza di dono gratuito per gli altri, perché tutte le nostre relazioni con le persone che incontriamo e con le cose che abbiamo siano segnate con il marchio della gratuità dell'amore di Dio. Il «già» da accettare è il limite radicale della nostra condizione umana, è il «tutto passa» della nostra vita, è il «tutto passa» del cielo e della terra: siamo creature finite, insieme a tutta la creazione: «cielo e terra passeranno»; non siamo onnipotenti, niente di tutta la terra e niente di tutto ciò che ci circonda rimarrà in eterno. Il «già» da accettare è la grande tribolazione provocata dalla radice del male che è dentro di noi, cioè la nostra illusione di autonomia incondizionata, di voler cavarcela da soli, soffocando in noi il dono dello Spirito Santo. Il «già» da accettare è la grande tribolazione provocata dalle forze dell'egoismo dell'umanità, che ci condizionano e perseguitano ogni nostro impegno per l'unità, per la giustizia, per la pace, per il rispetto del creato. Il «già» da accettare è la potenza delle parole di Gesù: «le mie parole non passeranno»: la resistenza nelle nostre tribolazioni, contro la radice del peccato che è nel nostro egoismo e contro le forze del male che ci perseguitano e vogliono screditare la nostra comunità cristiana, viene dalla scoperta della ricchezza inesauribile e della forza invincibile della Parola del Signore. Su questa roccia sicura della Parola del Signore Gesù Cristo vogliamo costruire, «già» da adesso, la casa della nostra vita (cf. Mt 7,24-27). Il «non ancora» da sperare è l'ora della nostra morte fisica, da non temere se siamo stati saggi nel «già» della nostra quotidianità, guidati dallo Spirito Santo per «indurre molti alla giustizia» dell'amore gratuito di Dio. Se il corpo di Gesù crocifisso è stato risuscitato, anche noi avremo una corporeità vivente e risplenderemo come le stelle del cielo, perché anche «molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno» (Dn 12, 2a). Il «non ancora» da sperare è «la venuta del Figlio dell'uomo sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e riunirà i suoi eletti dai quattro venti, dall'estremità della terra fino all'estremità del cielo» (Mc 13, 26-27). Nessuno sa il giorno e l'ora di questa definitiva venuta, «ma solo il Padre» (Mc 13, 32). La pazienza del Padre nel ritardare questo giorno consideriamola come un appello alla nostra libertà individuale, perché facciamo ancora fatica a riconoscere che Gesù è il Signore del cielo e della terra e tutto è già impregnato della presenza del suo Santo Spirito. Ci sono ancora tanti cuori chiusi all'amore del Padre! Il «non ancora» da sperare è il giudizio finale, tenendo presente che il Padre vuole la salvezza di tutti, ma rimane aperta la duplice possibilità: «gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna» (Dn 12, 2b). Se ci fa paura un giudizio di condanna è perché, in nome della nostra autonomia, perdiamo troppe opportunità di consegnarci pienamente alla presenza dello Spirito Santo, in attesa alla porta del nostro cuore. |