Omelia (02-12-2018) |
don Alberto Brignoli |
Risollevatevi e alzate il capo! "Stai su dritto, con la testa, che diventi gobbo!": quante volte me lo sono sentito dire da mia mamma, quand'ero piccolo. E forse non l'ho imparato del tutto: a volte ne pago le conseguenze, e mi ricordo di queste parole quando il mal di schiena mi affligge. Chi di noi, del resto, non è mai stato rimproverato per questo, o quantomeno esortato a "star su dritto"? È altrettanto vero che poi, divenuti più grandicelli, ci esortavano all'esatto opposto, ovvero ad "abbassare il filone della schiena", come si dice nel nostro dialetto orobico, cioè a piegarci all'idea del lavoro, della fatica, del sacrificio, invece di camminare impettiti come chi, orgogliosamente, si sente padrone più che operaio. Sta di fatto che camminare a testa bassa, oltre che a fare male da un punto di vista fisico, mette in evidenza proprio questo aspetto della sottomissione, dell'essere soggetto a qualcuno o a qualcosa: può essere il sacrificio, può essere la malattia, può essere la vergogna di incrociare lo sguardo degli altri, può essere il senso del dovere compiuto testardamente senza guardarsi attorno, può essere anche una persona o una situazione che desidera la nostra totale sottomissione. Uno degli sforzi maggiori che io e i miei collaboratori eravamo chiamati a sostenere quando ci trovavamo in missione tra le popolazioni indigene dell'altopiano boliviano - soggette a una sottomissione che, in modalità differenti, durava da almeno 500 anni - era proprio quella di convincerli a stare su dritti con la testa, a tenere la testa alta: e non tanto da un punto di vista fisico (la loro curvatura fisica era purtroppo dovuta a una schiena maciullata dagli incredibili carichi che sopportavano lavorando nei campi o come scaricatori al mercato in città), quanto da un punto di vista antropologico, morale, oserei quasi dire "spirituale". Vale a dire che li invitavamo a tenere alta la testa perché si sentissero fieri delle loro origine indigene, fieri di essere figli della loro terra, fieri di essere custodi di quell'ambiente così ostile alla vita (parliamo di almeno quattromila metri di altitudine, in mezzo al deserto) che solo gente come loro poteva abitare, lavorare, coltivare fino alla morte: fieri, in definitiva, di sentirsi liberi nonostante tutto e tutti. E riuscivamo nel nostro intento, perché li faceva sentire liberi il loro spirito di popolo, la loro identità, stretti intorno a quella cultura che non hanno mai perso, nel loro modo di vestirsi, di parlare e di pensare, sopravvissuti a tanti secoli di dominazione, e alle tipologie più disparate di oppressione: politica, economica, culturale, mediatica. Avevano dentro di sé una speranza: quella di poter continuare a trasmettere ai loro figli, e ai figli dei loro figli, il dono di sentirsi un popolo. È ciò che d'immediato mi è venuto da pensare, oggi, ascoltando la frase centrale del Vangelo, una sorta di esortazione alla speranza da parte di Gesù: "Risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina". Forse non saremo come le popolazioni indigene dell'altopiano boliviano o come qualsiasi altro popolo della terra che ha provato e sta provando una qualche forma di oppressione: eppure, di cose che ci fanno camminare a testa bassa e che cercano di schiacciare i nostri sentimenti, le nostre aspirazioni, i nostri desideri, i nostri progetti di vita, ce ne sono parecchie, anche per noi, anche nel nostro quotidiano. Le immagini che Gesù usa, in questo primo assaggio del vangelo di Luca (che ci accompagnerà lungo tutto questo nuovo anno liturgico), sono di una certa forza, sono quasi violente, e ci rimandano a tempi storici che noi non abbiamo vissuto e che ci auguriamo di non vivere, come invece fu per la Chiesa nascente, che assistette alla distruzione di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo; di certo, però, assistiamo anche noi a momenti in cui la vita tende a farci abbassare la testa e a farci camminare con lo sguardo rivolto verso un mondo nel quale non ci ritroviamo più, e che per questo ci fa paura. Ci fa paura, vedere che il sole non scalda più come qualche anno fa, bensì molto di più, con tutto ciò che ne consegue; ci fa paura vedere che le acque dei fiumi si gonfiano a dismisura per piogge incontrollate che scendono tutte di botto, in un giorno solo, dopo mesi di siccità; ci fa paura vedere masse di popolazioni che si spostano dalle loro terre, travalicano i confini di molti paesi, attraversano i mari, in fuga da angosce come la guerra o anche solo in cerca di una vita diversa da quella che chiamare vita è un eufemismo, e giungono sulle nostre coste, mettendoci in ansia perché ci fanno sentire impotenti e incapaci a fare qualcosa per loro; ci fa paura pensare di poter guardare più in là del nostro naso, non solo perché ottusi di fronte alle novità, ma anche perché il futuro, il domani, non ci offre garanzie, non ci dà prospettive, non ci stimola a osare, a provare a dare di più. Ecco, queste sono le paure che ci opprimono, e che elencate tutte insieme ci fanno passare la voglia di andare avanti. Ma una speranza c'è sempre, ed è bello che il Signore ce lo dica proprio in questo contesto: "Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina". "Non lasciamoci rubare la speranza": è una delle più forti e più belle espressioni che papa Francesco ci ha regalato in questi anni. Facciamola diventare stimolo di vita, e non solo oggi perché inizia l'Avvento, ma domani, e dopo domani, e domani ancora. Solo chi ha paura di vivere tiene lo sguardo sempre a terra: accettiamo, anche quest'anno, la sfida di rialzare il capo? |