Maria ha ingranato la sesta (marcia)
Diranno ch'è tutto un mangia-e-bevi la sua vita. Lui, ogni giorno, non farà altro che confermare quella loro diceria: con dei pubblicani, delle cortigiane, dei dissoluti andrà a mescolarsi. Con la feccia, quella peccatrice e quella festaiola: «Una volta volevo diventare ateo - confidò H. Youngman -, ma ci ho rinunciato: non hanno feste gli atei». Dopo essersi sciacquato la testa sulle acque giordane di Betania, dopo aver dichiarato incompetente in materia di tentazione il lurido Lucifero, il Cristo va a fare festa. Invitato, accetta l'invito. C'è anche gente che è incapace di gioire della felicità degli altri. Cristo non è tra questi: perché rifiutare l'onore di far festa assieme a della gente in festa? Un giorno, non molto lontano, s'azzarderà a dire che il suo Regno di lassù è molto simile ad un banchetto: qui, nel frattempo, abita i banchetti, alza i calici, batte le mani. Osanna, festeggia, fa il gioioso, Lui ch'è la gioia in terra. Va a nozze con l'umanità: «Vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea». Sognerà d'essere lo Sposo di chi ama: nel frattempo va a scuola di nozze, inizia a scrivere coi gesti il suo Credo nell'amore. In quello carnale, ch'è anticamera e preludio di quello dello spirito. Alla faccia di Lucifero, che lo vorrebbe tutto mogio-mogio, un mezzo scheletro ambulante tra le strade di Galilea: «Il Dio che lì si adorava era quello che si teme e si onora, non quello che ride con l'uomo davanti ai caldi giochi del mare, del sole - scrive A. Camus ne La morte felice - Da quel Dio l'uomo s'allontana». A Cana di Galilea, Cristo è gomito a gomito con chi festeggia: quando arriva, raddoppia la gioia a domicilio.
Giorni addietro ha salutato la Madre, s'è messo in proprio. Lei, discreta, s'è messa dietro, in disparte: non lo molla. In caso d'emergenza, interverrà: sarà la sua vista quando l'urgenza chiederà occhi-doppi per vederci meglio. Come a Cana: «(Figlio) Non hanno vino». Le parole di Lui paiono scorbutiche: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Lei, ch'è (ma)donna - cioè un raddoppio di donna - afferra al volo la questione: il vero segreto per divertirsi alle feste è capire quando è il momento giusto di andarsene. È il suo momento, l'attimo giusto per uscirsene per sempre dalla scena delle parole. Le pronuncia - sono le ultime parole -, poi indosserà un silenzio-parlante: «Fate quello che vi dirà». Lui, Figlio indipendente e tutt'altro che irrispettoso, mostra d'apprezzare il tatto di sua Madre, tradendo quella sua divina debolezza verso quella carne che Gli ha dato la vita: «Riempite d'acqua le anfore (...) Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Forza di Madre: le sue parole sono marce per la vita di Cristo. Ingranata la prima, pareva inchiodarsi: «Com'è possibile questo?» (Lc 1,34) In seconda, ha accelerato: «Ecco la serva del Signore» (1,38). In terza, ha braccato la cugina in festa: «L'anima mia magnifica il Signore!» (1,46) Con la quarta, ha fatto una sorta di retromarcia, per andare a recuperarsi il Cristo-perduto: «Perché ci hai fatto questo?» (2,48). In quinta fa scuola-guida al Figlio-Rabbì: «Non hanno più vino». In sesta, cede il posto del conducente al Cristo-adulto: «Fate quello che vi dirà». Ingranando la sesta, ha acceso la macchina dei miracoli del Figlio: d'ora innanzi, un passo indietro, farà pure Lei quello che Le dirà Lui. Discreta.
È cosa seria, la felicità: per essere felici un giorno basta una festa, per due è sufficiente un viaggio, per tre una casa con giardino. Per la vita intera, servirà uno scopo che sia degno. All'altezza, come a Cana quel giorno: «Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». Funziona così col Cristo: è sempre l'ultima chiave del mazzo ad aprire la porta. Quando meno te l'aspetti, manco più te l'aspetti, arriva il tutto che non ti aspettavi: «A Cana c'è gente felice che non si priva del piacere di scherzare e di ridere» (F. Mauriac). In mezzo a loro Cristo e tutta la sua ciurma di amici, Madre compresa: quando c'è da gioire della felicità dell'altro, Cristo è il primo ad alzare il calice. A riempirlo, quand'è necessario. A Lucifero, invece, si spappola il fegato: non digerisce un bicchiere in compagnia.
«A quei tempi era sempre festa.
Bastava uscire di casa e attraversare la strada, per diventare come matte,
e tutto era bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che succedesse qualcosa,
che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino,
o magari venisse giorno all'improvviso e tutta la gente uscisse in strada
e si potesse continuare a camminare fino ai prati e fin dietro le colline»
(C. Pavese, La bella estate)
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