Omelia (05-01-2003) |
mons. Antonio Riboldi |
Abbiamo bisogno di un vero amico Ho due ricordi di come si "sente" e "si vive" l'amicizia. E non con un amico a fior di pelle, ossia in modo superficiale, ma che diventa partecipe della vita fino quasi ad essere lui a viverci. E questo amico si chiama Gesù. Il primo ricordo è quello di mia mamma; e vorrei scusarmi se la cito spesso, ma per me era "un catechismo vivente", ossia un "dirti chi è Dio vivendolo". Ogni giorno, qualunque fosse la stagione o il tempo, molto presto si recava a Messa, per essere pronta poi al lavoro domestico con papà, e noi che eravamo tanti. Iniziava la giornata con un sorriso che sembrava volesse fugare le nubi del sacrificio quotidiano. Era felice di avere con sé, "il mio Gesù" diceva spesso. Quante volte da anziana l'ho trovata con il Crocifisso tra le mani, quasi a volerlo farlo entrare dentro le sue carni! "Lo tengo così, mi diceva, perché è Lui l'amico che conta e che quando sarà il giorno della mia morte incontrerò". Il secondo ricordo è quella di una persona che da anni era costretta a stare a letto con dolori fortissimi. La incontravo sempre con un sorriso che le illuminava il volto, con una luce che nulla aveva a che fare con la luce del sole: era l'indiscrivibile sorriso di chi ama fortemente, ma soprattutto si sente amata. A me non restava che contemplare quel sorriso e quella luce. E quando le chiedevo da dove le arrivava tanta gioia pur nella sofferenza continua, mi rispondeva: "Ho come la netta sensazione di vivere l'amore di Gesù sulla croce. Con Lui, soffrire e un'altra cosa." E potrei continuare a lungo nel descrivere questa gioia che per fortuna ho incontrato nella mia vita di sacerdote e Vescovo su tante persone, uomini o donne, giovani o adulti, nella vita quotidiana. La risposta di tanta felicità era la stessa Gesù. Viene da chiedersi come mai tutti viviamo questa felicità, anche se siamo come assediati da tante lacrime. C'è tanta, ma tanta tristezza sul volto della gente, giovane o adulta che a volte sembra di leggere nel loro volto e soprattutto nei loro occhi, solo se si ha il coraggio con amore di "entrare in loro facendo incrociare il nostro sguardo con il loro" l'amarezza di una solitudine, propria di chi ha attorno tanta gente, ma nessun amico. Ossia la solitudine di chi pur vivendo tra tanta gente si sente sola come in un deserto. Eppure tutti, soprattutto noi che ci diciamo di Cristo, per il Battesimo, questa amicizia dovremmo averla perché Gesù è in noi e ci ama. Gesù è il buon Pastore - affermava Paolo VI il 4 Gennaio 1964 - dell'umanità. Non vi è valore umano che Egli non abbia rispettato, sollevato, rendendo. Non vi è sofferenza umana che egli non abbia compresa, condivisa, valorizzata. Non vi è bisogno umano, ad esclusione di ogni imperfezione morale, che egli non abbia assunto e provato in se stesso, e proposto all'intelligenza e al cuore degli uomini come oggetto della loro sollecitudine e del loro amore, e per così dire, come condizione della loro salvezza. Persino per il male, che ha conosciuto in qualità di medico dell'umanità e ha denunciato con il più energico vigore, ha avuto un'infinita misericordia, fino a fare scaturire nel cuore dell'uomo, mediante la grazia, sorprendenti fonti di redenzione. Fa davvero male non solo vedere nella nostra società una voglia di essere soddisfatti da se stessi, come a non avere più bisogno di nessuno, persino di Dio, e adattarsi alla solitudine terribile di una vita senza l'amicizia del Padre. E' come condannarsi all'inferno che altro non è che soffrire atrocemente per avere rifiutato ostinatamente l'Amore, per cui siamo stati creati. Come fa male a volte notare in famiglia, o tra cosiddetti "amici" il fastidio anche solo di sentire parlare di Dio! Senza forse sapere che le nostre fragili amicizie, sono come le briciole cadute dalla tavola imbandita del ricco epulone e che il povero Lazzaro contendeva ai cani. Quando Dio ci ha invitato non a raccogliere briciole che non sfamano il cuore, ma a sedersi alla Sua Mensa. E' il Vangelo di oggi che ci invita a queste riflessioni. Come per una solenne sinfonia che accompagna l'ingresso di Gesù nel mondo dove vuole restare per sempre accanto e dentro ogni uomo per invitarlo a condividere il suo amore. L'Evangelista Giovanni così inizia il Vangelo: "In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo, e il mondo fu fatto per Lui eppure il mondo non lo riconobbe. Venne tra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto. A quanti però l'hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio" (Gv.1,9-14). E' la spiegazione della gioia di molti che vivono l'amicizia di Dio, come figli, e altri sono come gente dispersa nel deserto della vita, in cerca di ciò che il deserto non riuscirà mai a dare. Bisognerebbe chiedersi allora tutti, se noi siamo tra quelli che hanno accolto con la gioia dei pastori, Dio tra di noi: se siamo coloro che davvero sentono che c'è Qualcuno che li ama, fino a dare la vita, un amore che non è superficialità di parole, ma condivisione di tutto fino a essere vigore là dove c'è debolezza: e quindi abbiamo accolto Gesù nella vita. O se di fatto, anche se non abbiamo il coraggio di dircelo, Gesù è fuori della nostra amicizia. Era una notte di Natale. Avevo terminato il pontificale e mi avviai lentamente facendomi a fatica, spazio tra la moltissima gente che era venuta alla S. Messa. Quando mi accorsi che in una cappella laterale della cattedrale, nella semioscurità, vi era una donna giovane che piangeva. Mi fermai: mi avvicinai: la fissai in volto e le dissi: a Natale, non c'è posto per le lacrime, se non per quelle di gioia perché ora non siamo più soli, ma con noi c'è la gioia, Gesù. E le diedi una carezza. Quella donna mi saltò letteralmente in braccio nonostante i paramenti, il pastorale e la mitra che indossavo e sfogò il suo dolore. Ci lasciammo così con l'incontro tra dolore e gioia. Dopo un anno rividi quella giovane donna che mi attese in sacrestia per dirmi: "La ringrazio Padre", quel Natale, quel sentire che non ero sola, ma c'era Qualcuno che mi voleva bene, è stato come una nuova nascita. Ora sono felice". Vale la pena di voltare le spalle al mondo, al suo chiasso senza senso, alle sue follie, e farsi inondare dalla luce del Verbo; farsi catturare dalla Sua amicizia per gustare questa vita che è fatta per la gioia. Che Gesù ci aiuti ad incontrarLo. |