Omelia (19-04-2019) |
Agenzia SIR |
Commento su Giovanni 18,1-19,42 La vicenda terrena di Gesù sembra rotolare come un masso, sempre più precipitosamente e con sempre più fracasso. Il giardino, "al di là del torrente Cedron", era un luogo abituale per Gesù e i suoi discepoli, richiamava quel giardino in cui Adam, il primo uomo, era vissuto felicemente. Luogo di silenzio, di preghiera, complice l'oscurità. L'irruzione è decisamente pesante, Giuda ha raccolto una sorta di banda armata legalizzata: "Un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi". Il silenzio è rotto e rotta è l'armonia sperimentata nel gruppo. Nessuno dei discepoli va loro incontro, Gesù rivolge la domanda: "Chi cercate?", mosso dalla consapevolezza che andava crescendogli dentro. Probabilmente non era al corrente di ogni singolo dettaglio ma viveva la certezza che il suo destino era segnato, avrebbe dovuto affrontarlo non come un dramma tracciato e ineludibile, catastrofico e rovinoso, sì come la concretizzazione, via via più serrata, del grande progetto d'amore del Padre. L'istinto avrebbe sollecitato chiunque a fuggire, cogliendo l'opportunità delle tenebre, della presenza di altre persone che la banda avrebbe dovuto identificare prima di procedere. Una fuga nessuno l'avrebbe stigmatizzata come viltà ma come necessità per salvare la vita. Gesù invece muove un passo avanti e si identifica, pronto a lasciarsi catturare, la sua risposta stronca la baldanza della banda. Risuonano in quella voce le parole che nella Torah vengono scandite dallo stesso Altissimo: "Io sono" (Es 3, 15). La banda armata è costretta ad indietreggiare e a precipitare a terra, mentre il ricercato rimane in piedi e si offre spontaneamente, non perché non abbia scampo ma perché mosso da un intento, altro, più profondo e autentico. Egli, uno, al posto dei suoi, molti. Vibrava nel suo animo il disegno di salvezza del Padre che doveva trovare il suo compimento. Gesù lo fa suo e ne accetta tutte le possibili conseguenze. I suoi sono suoi perché li ha ricevuti e deve custodirli, portarli a salvezza. Non può abbandonarli e lasciarli vagare, deve mostrare loro nel concreto come, in realtà, avviene quanto detto "Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato". Tutti noi siamo quelli che Egli non ha perduto, deve crescere in noi, se Lo guardiamo, una consapevolezza amorosa che, mentre si sente tutelata, si sente sospinta ad una donazione totale che nulla tema e che tutto sappia affrontare: la propria croce e anche la Croce. Commento a cura di Cristiana Dobner |