Commento su Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Lc 22,14-23,56
Quando partecipiamo all'Eucaristia della Domenica delle Palme, ci avviciniamo in genere alla lettura della Passione di Gesù con quella commozione che deriva dal percepire la distanza esistente tra la nostra accurata attenzione ad evitare fatiche, dolori, disconferme, e l'atteggiamento del Maestro che accetta di essere insultato, oltraggiato, messo in croce per quello che può apparire, ad occhi profani, il più colossale fallimento della storia, a causa di un amore senza confini per ognuno di noi. Viene quasi da considerare inconcepibile un amore di tali dimensioni.
Forse Paolo, scrivendo ai cristiani della comunità di Filippi, con le sue mani callose, ma con il cuore puro come quello di un bambino, aveva colto questa distanza, Rileggiamo insieme questa pagina:
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
Si tratta di una pagina straordinaria in cui teologia e antropologia si saldano in un dialogo continuo tra la visione di Dio e la visione dell'essere umano. Provo ad estrarre alcuni stimoli.
Gesù non è solo un modello da imitare da parte di ogni cristiano (e di ogni essere umano). Lo sforzo che soprattutto dobbiamo fare - come singoli, come coppia, come famiglia - è quello di interiorizzare (avere, sentire in noi) gli stessi suoi sentimenti. E quali sono questi suoi sentimenti? Ecco: pur essendo di natura divina (cioè pur essendo Dio) egli considerò questo suo essere Dio come un dono e non come un tesoro geloso (ma sarebbe più corretto dire "una rapina") e dunque, come dice il testo greco eautòn ekénosen, si annichilò, si annientò, si spogliò, spogliò e privò se stesso, si "svuotò" di questo essere uguale a Dio, potremmo anche dire, "depose il suo IO". È un passaggio importante, che mette in crisi il fondamento stesso del nostro pensiero, ma soprattutto dei nostri modelli di vita. Infatti, il pensiero occidentale e la modernità si sono costituiti e sviluppati sulla concezione dell'IO come punto di riferimento essenziale: un percorso che porta alla rivalutazione della soggettività. Rivalutare il soggetto non è affatto negativo, a condizione però che egli entri in dialogo fecondo con l'altro. Se manca questa condizione, se ogni altra presenza viene considerata un ostacolo alla propria autorealizzazione, abbiamo come conseguenza un IO centrato su se stesso e capace solo di creare un pensiero autosufficiente. Purtroppo la cultura dell'Occidente avanza lungo sentieri che hanno all'orizzonte una visione dell'individuo come ombelico del mondo e che si poggia non sull'essere ma sull'avere. L'IO finisce col diventare imperialista,, padroneggiante, arrogante.
Gesù (continuiamo a seguire la stupenda lezione paolina) traccia un percorso diametralmente opposto: depone il suo "IO", non si lascia dominare da esso, assume la condizione di servo. In questo senso, dunque, viene riconosciuto come uomo. Il vero uomo è il servo di tutti (non lo schiavo, servo di un padrone terreno che lo sfrutta), ma il servo, colui cioè che si mette a disposizione degli altri. La condizione vera di ogni uomo e di ogni donna è il servizio; l'essere umano è il "servo" di Dio e - in termini filosofici e laici - il "servo" dell'umanità: ma le due posizioni a ben vedere coincidono, perché nell'Evangelo l'amore di Dio e l'amore del prossimo non sono disgiungibili. L'amore di Dio è l'amore del prossimo, l'amore del prossimo è l'amore di Dio. E Gesù umiliò se stesso (si "incarnò", cioè, divenne "uomo" e "servo") fino alla morte e addirittura ("e", nel testo che abbiamo letto, ma in latino "autem") fino alla morte di croce, che non è certo la morte che si confà all'uomo, ma è la morte dello schiavo. È una rivoluzione antropologica, ma anche teologica.
Ma c'è un'altra conseguenza vitale importante: se la condizione "ideale" dell'uomo e della donna è quella di "servi", e se la condizione di "servo" è contraddistinta da una condizione di "limite" (limite di potere, anche di "cultura", impossibilità di accedere ai beni che si desiderano, fragilità...), si comprende come la tensione verso l'Assoluto sia inattingibile se non attraverso la consapevolezza e l'accettazione di questo limite. Come a dire: solo se saremo "servi" gli uni degli altri, solo in una condizione accettata e costantemente perseguita di servizio, solo accettando la nostra condizione di creaturalità, potremo cogliere l'Assoluto e tendere a lui.
Ci sono coppie e famiglie forse un po' "fuori" della norma, in cui tuttavia l'Assoluto si fa presente perché i loro componenti, magari con grande fatica, sono capaci o almeno tentano - ad imitazione (non sempre e necessariamente consapevole) di Gesù - di vivere questa condizione di servizio reciproco, come possono e come sanno, certo, ma pur sempre fidandosi ed affidandosi a vicenda e scoprendo così a poco a poco la sovrabbondanza del dono. Come continua a dirci papa Francesco, la comunità cristiana non può emarginare queste coppie e queste famiglie, ma deve stare in mezzo a loro, coinvolgerle, scoprire la ricchezza che esse possiedono. Molte volte ci accorgiamo di non avere parole per il dialogo con esse, ed è allora che possiamo - come era solito dire il cardinal Martini - intercedere, cioè proprio "inter - cedere", camminare in mezzo, che significa incominciare con il vivere insieme con loro, imparando ad apprezzarci a vicenda ancora prima di intraprendere un dialogo esplicito. Se portiamo assieme la croce la fatica si fa meno pesante.
È, a ben vedere, la prospettiva annunciata da Isaia: Il Signore Dio, mi ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro...(Is 50,5). A qualunque condizione, come Gesù: Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi...(6).E come Simone di Cirene (cf Lc 23,26), il discepolo porta la croce (ogni discepolo porta la sua croce). Pensiamo a quante coppie di fidanzati e di sposi portano sulle spalle la loro croce pesante e spesso, come Gesù, inciampano per strada e cadono, per la stanchezza, il dolore, l'angoscia, la fragilità, l'incapacità di comunicare... Gesù è vicino a queste coppie, Lui che ha provato la fatica del cammino. È vicino ai "malfattori" per i quali si apre una strada di salvezza, e vicina deve essere dunque la comunità cristiana, disposta sempre a fare scelte, anche contro corrente o non comprese, a favore di chi fa più fatica, di chi soffre per situazioni difficili, senza porsi mai su un piano di giudizio, ma neppure di ammirazione o di autocompiacimento per la propria "perfezione".
La croce non è solo al centro delle letture di questa Domenica delle Palme, è al centro di tutta la nostra vita e della storia. Anzi, è solo partendo da essa che possiamo, a ritroso, ri-leggere e ri-narrare la vicenda di Gesù. Spesso la banalizziamo, la croce di Cristo. Essa non è una croce qualunque, e non sono croci qualunque quelle che ci ingombrano il cammino ai crocicchi delle nostre strade, nei lebbrosari dell'Africa, nelle favelas del Brasile, sotto le bombe sganciate dagli imperialismi d'ogni colore; nei luoghi dove vengono appesi e dimenticati uomini e donne d'ogni fede, di ogni razza, di ogni età; sulle fragili imbarcazioni che si rovesciano nel mare Mediterraneo, in cui annegano bambini, donne uomini in fuga dalle guerre e dalla fame; nelle case dove vivono coppie in crisi, "irregolari", angosciate...
Per questo la croce non va mai esibita, non va mai trasformata in oggetto di scandalo, come quelle sugli scudi dei soldati di Costantino, o quelle d'oro e tempestate di pietre preziose portate da molti uomini di Chiesa, o da ricche signore esibizioniste. La croce è una cosa seria. È il caso più serio della vita. Perché è su di essa che il Cristo ha avuto il coraggio di gridare:
"Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Perché rimani lontano e non m'aiuti? Perché non ascolti il mio pianto?" (Sal 22,2).
Traccia per la revisione di vita
1) Che cosa suggerisce oggi alla nostra coppia e alla nostra famiglia la "Passione" di Gesù?
2) Siamo disposti in famiglia a portare reciprocamente le nostre croci, con la "pazienza" di Gesù, cioè con la sua disponibilità a "patire-con" noi?
3) Siamo capaci di cogliere il mare di sofferenza, di fatica e di angoscia che è attorno a noi e a rinunciare ai nostri atteggiamenti superficiali e giudicanti?
4) Sappiamo ricostruire e rileggere a partire dalle croci disseminate lungo il nostro cammino, tutta la nostra storia e la storia di chi ci sta accanto?
Luigi Ghia- Direttore di Famiglia Domani
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