Omelia (18-04-2019) |
don Alberto Brignoli |
È l'ora di donare la vita. Per amore. Il Vangelo di Giovanni è chiaro: Gesù sapeva tutto. Come un malato terminale, a cui medici e parenti hanno rivelato l'entità del suo male e la durata dei suoi giorni; come un condannato, recluso nel braccio della morte in attesa dell'esecuzione capitale; come un soldato, rimasto da solo in prima linea a combattere. C'era ben poco da fare: il suo destino era segnato, e lui lo sapeva molto bene. Sapeva "che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre"; sapeva "che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava"; sapeva anche "chi lo tradiva", ed erano tutte cose sulle quali era costretto a tacere, almeno per il momento, almeno per quel momento, nel quale stava per iniziare l'ultima delle sue cene con i suoi amici. Del resto, avrebbe avuto tutto il tempo che voleva, per spiegare loro che cosa sarebbe successo di lui nei tre giorni a venire: Giovanni dà spazio per un quarto del suo Vangelo a questa "spiegazione" (ben cinque dei ventuno capitoli di cui è composto), e poi riprenderà la sua narrazione proprio nel modo in cui l'aveva interrotta, ovvero sottolineando (e a questo punto saremo già nel Getsemani, e sarà già domani) che egli "sapeva tutto ciò che gli doveva accadere". Ora, anche solo per un istante, proviamo a metterci nei suoi panni: anzi, magari qualcuno nei panni di Gesù in fase terminale vi si trova veramente, perché la vita lo ha catapultato, suo malgrado, in quei panni. E pensiamo: cosa avremmo fatto, in quella situazione? Che cosa avrei fatto io? Che cosa farei io? Che cosa sto facendo, io, se so che il Signore "ha fatto i miei giorni di pochi palmi", per dirla con il salmista? Che sentimenti possono albergare nel cuore di un'umanità contata, pesata e misurata? Rabbia; delusione; sconforto; ribellione; al più, rassegnazione di fronte a un ineluttabile destino. E amore? È possibile che alberghi amore, nel cuore di una persona che, ancora nel fior fiore della sua giovinezza, a soli trent'anni o poco più, sa già che non può aggiungere se non pochi giri di lancette alla sua vita? Amore alberga nel cuore di due innamorati che si donano tutto ciò che di più bello hanno; amore alberga nel cuore di una mamma che accarezza il suo pancione e gli rivolge da subito parole dolci; amore alberga nel cuore di chi è guardato in volto dalla vita in maniera sorridente e radiosa, come gli alberi in fiore dal sole caldo di questi primi giorni di primavera. Ma nel cuore di Gesù, dove già sono entrati i rintocchi della morte, possono entrare pure i battiti dell'amore? Amore e morte, possono veramente coesistere nel cuore di una persona, o sono solo favole romanzate di sublimi poeti allegorici? Solo il Cantico dei Cantici, tra i libri ispirati, ci parla di amore "forte come la morte"? Gesù - è sempre il Vangelo di questa sera, nel primissimo versetto di questi cinque capitoli della cena - "sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine". Sapeva che era ormai finita, che la sua ora - attesa da tempo, da quando, all'inizio di questo nostro cammino, il diavolo lo lasciò in pace per tornare all'ora stabilita - stava ormai per giungere al termine, ma non si espresse con rabbia, né con delusione; non si fece prendere dallo sconforto e nemmeno da un senso di ribellione; ancor meno si rassegnò al suo ineluttabile destino. Lascia questi sentimenti a noi, a noi che, giustamente, di fronte alla nostra fine (qualora ne venissimo a conoscenza per tempo) non potremmo che reagire così, umanamente parlando. Lui invece si alza, come farà al termine di questi tre giorni, alzandosi dal sonno della morte, e prima ancora di parlare e di lasciare ai suoi discepoli il più lungo discorso testamentario che un morente abbia lasciato ai suoi cari, compie un gesto che non ha bisogno di parole; un gesto che meno viene spiegato e meglio è, perché a loro risultò estremamente chiaro, perché certi gesti non si spiegano, perché per dire "Ti amo", nella stragrande maggioranza delle occasioni non si usano parole, ma gesti e segni. Come quello di cingersi un asciugamano intorno alla vita, di brandire nelle mani un catino, e di lavare i piedi ai suoi discepoli: il gesto di una mamma che lava i suoi bimbi prima di metterli a dormire; il gesto di una badante che lava un anziano prima di vestirlo al mattino; il gesto di un servo che, a quei tempi, accoglieva il proprio padrone di ritorno da un viaggio, dandogli così il bentornato a casa. "Bentornati nel cuore di Dio", sembra dire Gesù ai suoi discepoli, dopo tre anni di cammino lungo le strade polverose della Palestina; "bentornati a casa", dopo essersi incontrati con tutti i modelli di umanità immaginabili e possibili; "bentornati nel mio amore", perché vi rimangano una volta per tutte, e ripetano questo gesto d'amore tra di loro ogni volta che sia necessario. Un gesto non facile da accettare, per chi non accetta che amore e morte possano coincidere, quando sono portati all'estremo; un gesto che verrà accettato anche da Pietro, ma solo più avanti, solo dopo aver capito che di fronte alla morte non si usano spade e bastoni per difendersi, e nemmeno la menzogna e il tradimento per salvare la pelle. Di fronte all'imminenza della morte, non ci può essere rabbia, né delusione, né sconforto, né ribellione, né rassegnazione. Di fronte alla morte, c'è sicuramente un ineludibile destino che ci chiede di restituire a Dio la nostra vita; e il modo più bello per farlo è di donarla, volontariamente, per amore. Solo per amore. |