Omelia (26-05-2019) |
mons. Roberto Brunelli |
La pace è un dono a chi lo vuole accogliere Il vangelo di oggi (Giovanni 14,23-29) introduce alle due prossime feste, con cui si concluderà il tempo pasquale: la prossima domenica si celebrerà l'ascensione di Gesù, e la successiva sarà la solennità di Pentecoste. La prima è evocata dall'accenno del suo ritorno al Padre, con l'assicurazione che ciò non significa abbandonare i suoi amici: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui". Alla Pentecoste allude quando dice: "Il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto". Ma nel brano ha somma rilevanza anche un'altra frase: "Vi lascio la pace, vi do la mia pace". Queste poche parole bastano a suscitare un fiume di considerazioni, perché quello della pace è un argomento dalle molte facce; è un desiderio che, magari in modo confuso, inquieta ogni giorno di questa vita. Ovviamente aspirano alla pace quanti sentono la propria vita a rischio tra i bombardamenti, o di una guerra subiscono in vario modo le conseguenze. Vorremmo poi tutti quella vera pace tra i popoli, che tra l'altro consentirebbe al mondo di non dissipare in armamenti incalcolabili risorse, da utilizzare invece per debellare fame e malattie. Su un piano più domestico, non si può dire si viva in pace là dove l'armonia è un miraggio, dove si sono rotti lunghi rapporti affettivi (tra coniugi, tra fratelli, tra parenti e amici) e si coltivano astio e rancori. Per non trascurare i singoli, così spesso amareggiati da incomprensioni e ingiustizie, o turbati da problemi insolubili, o inquieti per ambizioni e propositi insoddisfatti. Per le ragioni più diverse, la pace è sempre stata per gli uomini più un desiderio che una realtà. Anche perché gli uomini l'hanno cercata (quando l'hanno fatto!) con i soli propri mezzi, con le risorse di intelligenza e in prospettive puramente umane, perciò stesso deboli e precarie, quando non fallaci. Hanno trascurato una componente, l'unica in grado di assicurare una pace vera e duratura: l'aiuto divino. Già prima di Gesù i destinatari della divina rivelazione, vale a dire il popolo d'Israele, la pace la invocavano da Dio e la consideravano il bene supremo (di qui il saluto-augurio tuttora usato dagli ebrei, "shalom", poi adottato anche dagli islamici, "salam", cioè appunto "pace"). Bene supremo, con un significato più denso di quello oggi corrente: comprendeva infatti pienezza di vita, gioia e salute, successo nelle imprese, compimento dei desideri; e nell'ottica della fede andava anche più in là: significava il compimento delle promesse di Dio al suo popolo, la piena e definitiva realizzazione dell'alleanza. Così devono avere inteso anche gli apostoli, quando Gesù ha detto loro "Vi lascio la pace". E chissà se sul momento hanno capito la successiva precisazione, "Vi do la MIA pace": probabilmente l'hanno capita solo in seguito, alla luce di quanto è accaduto subito dopo. Quelle parole fanno parte del discorso che Gesù ha rivolto loro durante l'ultima cena, appena prima di affrontare la sua passione redentrice. La pace vera è quella che egli ci ha guadagnato con il proprio sacrificio, unica via perché si realizzi l'armonia tra Dio e l'uomo. Soltanto se vive in armonia con Dio, se cerca di fare la Sua volontà, l'uomo è in grado di impostare correttamente i rapporti con i suoi simili, di orientare positivamente le proprie risorse, di coltivare desideri di bene, di sopportare le difficoltà della vita presente. Insomma, soltanto nel rapporto con Dio l'uomo trova la pace. E la trova perché Dio gliela dona, per i meriti del suo Figlio che proprio per questo ha liberamente sacrificato se stesso. La pace è un dono: perciò non si instaura automaticamente; Dio non impone i suoi doni: li offre. Sta poi all'uomo, alla sua intelligenza e alla sua libertà, accoglierli e valorizzarli. |