Omelia (12-01-2003)
don Elio Dotto
Con Gesù, nel comune destino degli uomini

«In quei giorni Gesù venne da Nazareth di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni» (Mc 1,9).

Inizia così la vita pubblica di Gesù: senza splendore, senza gloria, senza nome. Addirittura, Gesù viene a quel battesimo di penitenza senza storia: senza una storia personale che meriti di essere proclamata. Viene con la storia di tutti: trent'anni di vita in famiglia, riempita da molte ore di lavoro, dalle consuete occupazioni quotidiane, dalla comune fede dei padri.

Certo, la sua nascita era stata accompagnata da alcuni segni misteriosi: ma ormai erano stati dimenticati, avvolti dallo scetticismo e dalla disillusione del tempo che passa. Soltanto la madre non aveva dimenticato quei segni, e ancora attendeva di capire: ma Gesù ora si era allontanato da lei, per iniziare la sua missione. E così, presso il Giordano, egli è davvero l'uomo comune, l'uomo la cui esistenza assomiglia tanto alla ripetizione uguale di un destino che è di tutti.

Accade anche a noi, spesso, di trovarci in questa condizione. Anche noi, infatti, sentiamo tanto comune e ordinaria la nostra vita quotidiana: il nostro destino ci appare, di solito, scontato e prevedibile. Vorremmo allora quasi fuggire da questo destino comune, vorremmo liberarci dalla banale mediocrità di ogni giorno, e magari sogniamo una vita diversa, con amici diversi, in un mondo diverso. Ci succede così di ripetere sovente, almeno con il cuore, la preghiera del salmo 54: Chi mi darà ali come di colomba, per volare e trovare riposo? Chi farà spiccare il volo a questa nostra piatta esistenza? Chi ci libererà da questa vita così comune e anche così cattiva, ridando finalmente riposo e dignità ai nostri giorni?

Pressappoco questo noi pensiamo, davanti al nostro quotidiano destino. E dunque ci colpisce l'immagine di Gesù che si mette in fila con i suoi comuni fratelli per ricevere quel comune battesimo di penitenza. Quest'uomo non afferma la propria dignità proclamandola, ma ignorandola del tutto, e lasciando che un Altro – Dio stesso – se ne occupi per lui. Egli non afferma la propria innocenza separandosi dai comuni peccatori, ma sentendo compassione per i peccatori, sentendo il loro comune peccato come realtà che lo riguarda, che pesa sulle sue stesse spalle.

Senza paura, dunque, Gesù si immerse nel comune destino dei suoi fratelli. E appunto per questo – per non aver temuto questa mescolanza con tutti, per aver anzi amato questa solidarietà con tutti – appunto per questo Gesù meritò di vedere i cieli aperti e lo Spirito discendere su di lui; soprattutto meritò di udire quella voce dal cielo che diceva il suo nome, quella voce che lo riconosceva quale Figlio: «Tu sei il Figlio mio prediletto» (Mc 1,11).

Appunto quella voce è rivolta anche a noi: a partire dal giorno del nostro battesimo, fino ad oggi. «Tu sei il mio Figlio prediletto». E allora abbandoniamo il nostro disgusto nei confronti del comune destino che ci aspetta; dimentichiamo i nostri sogni di mondi diversi e migliori: solo in questa nostra vita comune e a volte anche banale, solo qui, mescolati ai nostri fratelli peccatori, Dio potrà riconoscerci come figli – e potrà chiamarci per nome.