Omelia (02-02-2020)
padre Gian Franco Scarpitta
Umiltà, salvezza, luminosità

Recita un famoso detto che "l'Epifania tutte le feste porta via". Ad esso se ne aggiunge un altro, "La Candelora: ci sono io ancora". La presente liturgia, popolarmente denominata "Candelora", riguardante la presentazione al tempio di Gesù, assume connotati di vicinanza alla festa della manifestazione del Bambino divino di Bertlemme (Epifania) ed effettivamente ne costituisce un prolungamento significativo. Il Bambino divino, che ha già dimostrato di essere asservito a due genitori terreni dimorando in un alloggio di fortuna fra le asperità e le precarietà di una mangiatoia, sottomesso all'umanità di cui in realtà è Re indomito e universale, dimostra ancora una volta di sottomettersi agli uomini e alle Istituzioni vigenti. Paolo dirà: "nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare coloro che erano sotto la Legge". Era infatti norma prescritta e inesorabile che ogni primogenito venuto al mondo dovesse essere consacrato a Dio dopo otto giorni dal concepimento (Es 13, 2), con un relativo rito di circoncisione e per mezzo del benvolere di Maria e Giuseppe il Figlio di Dio usa ancora una volta umiliarsi nella sottomissione a tale disposizione terrena, senza recalcitrare e senza fare eccezione rispetto ad altri. Una generosità che tuttavia non gli smentisce la trascendenza di Figlio di Dio nonché Salvatore, come si evince dalle parole del vecchio Simeone che confida di poter chiudere gli occhi soddisfatto di aver visto in questo Bambino la "salvezza preparata davanti a tutti i popoli". Come già nel Natale e nell'Epifania vi è quindi un episodio di affermata umiltà e sottomissione immediatamente associato alla gloria e all'esaltazione. A Betlemme Gesù, nato umile e vulnerabile e accudito in una spelonca nella sua umiliazione viene esaltato da pastori e magi che ne cantano la gloria; nel tempio la sua mortificazione di sottomettersi alle disposizioni vigenti viene accompagnata dall'esaltazione da parte di questo anziano uomo pio e devoto.
Un'altra osservazione: nella notte in cui il popolo di Israele veniva liberato dalla schiavitù dell'Egitto, mentre Dio per mezzo di Mosè invitava le generazioni future a consacrare a Lui ogni maschio primogenito, si accingeva a provocare la morte di ogni primogenito fra gli Egiziani ai fini di convincere il Faraone a lasciar partire gli Israeliti: la primogenitura contrassegna pertanto la salvezza e la liberazione, diventa occasione di libertà e di emancipazione per il popolo anche se in circostanze così drammatiche per i nemici. Anche la primogenitura di Cristo è sinonimo di salvezza, poiché egli è venuto al mondo "per primo" per essere il Salvatore del mondo e del resto verrà definito anche "primogenito i coloro che risorgono dai morti e principio di tutta la creazione"(Col 1, 15 - 16).
Che egli sia "primogenito" non comporta necessariamente che dopo di lui vengano concepiti altri figli dal grembo di Maria: la Madre del Signore manterrà infatti inalterata la sua purezza, illibatezza e preventivata verginità. Piuttosto l'essere primogenito per Cristo equivale a vivere sin dalla prima infanzia la propria comunione con il Padre nell'atto della consacrazione, a realizzare la necessaria intimità di relazione con Lui, la relazione per essere con lui una cosa sola (Gv 10, 30); ma anche per estendere questa sua intimità con il padre a tutti gli uomini, perché ne diventino partecipi e nello Spirito Santo giungano al Padre per mezzo del Figlio. La primogenitura di Gesù Bambino è di conseguenza un'espressione di salvezza perché si estende a tutti gli uomini che guardando a Cristo vedono anche il Padre e a lui aspirano per avere la via, la verità e la vita.
L'umiltà di Gesù diventa quindi elemento di salvezza. Ma proprio per questo Gesù è anche "luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele". E' anche questo il senso dell'incedere odierno il chiesa ciascuno con la sua candela accesa. Che Cristo sia Luce del mondo (Gv 8, 12) è risaputo anche per la profezia di Isaia che si realizza in lui, di cui si rifletteva la scorsa domenica: "Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce"(Is 9, 1), come pure per il fulgore della cometa che indirizzava i Magi dall'Oriente, ma in questo particolare ambito a riscontrarne il valore e la portata è la semplice professione di fede di un uomo che riconosce nel Bambino il Figlio di Dio che apporta la pace, la giustizia e realizza la speranza del suo popolo.
Il procedere di oggi con le candele accese in chiesa che come consuetudine si portano a casa per devozione non può non essere espressione di radicalità nella sequela di Cristo da noi concepito veramente come luce che illumina ogni uomo. Dovremmo innanzitutto lasciare che lui ci illumini, cioè orienti il nostro cammino e riconoscere nel suo fulgore, e non in altre luminosità fittizie, il nostro orientamento. Che Cristo sia la luce del mondo va professato nella prassi quotidiana della vita di fede e di speranza che sfociano irrimediabilmente nella carità operosa; va testimoniato con la coerenza evangelica dell'umiltà e dell'amore al prossimo, nella ricerca del bene e della giustizia e con la seria disposizione a metterci al seguito di Gesù in qualsiasi circostanza, allontanando la tentazione di farci abbagliare da altre luminosità fittizie deplorevoli, non ultimo il peccato e le felicità passeggere.
Come lo stesso Cristo di conseguenza ci invita, di questa luce non possiamo non essere riflesso per gli altri nella radicalità della testimonianza evangelica attraverso la santità della vita e la ricerca continua delle perfezione, in modo da essere apportatori di un sistema rinnovato nel quale le tenebre dell'errore vengano per sempre dissipate.
L'umiltà di Gesù che scaturisce nella salvezza universale della sua primogenitura deve così diventare prerogativa anche nostra, da incarnare in tutti i tempi e in ogni ambito di vita affinché non banalizziamo quanto il Bambino Divino ha realizzato nel farsi uomo per noi.