Omelia (02-02-2020)
don Alberto Brignoli
Per le Genti

Oggi sembra di fare un passo indietro, nella Liturgia. Siamo finalmente riusciti a mettere via statuine, presepi, decorazioni e addobbi natalizi; siamo ormai entrati nel mese che ci catapulterà nel Carnevale e - immediatamente dopo - nella Quaresima, e di colpo torniamo a contemplare la Sacra Famiglia di Nazareth nel mistero della Natività, o quanto meno dei primissimi giorni della vita di Gesù. Se vogliamo essere matematici, la festa della Presentazione di Gesù al Tempio oggi calza a pennello, perché sono passati esattamente quaranta giorni dal Natale: gli stessi quaranta giorni che Maria e Giuseppe, "secondo la legge di Mosè", lasciarono trascorrere prima di presentarsi al tempio di Gerusalemme per compiere due riti, quello della "purificazione" della madre, resa "impura" dal parto (visione ovviamente retrograda, ma non pensiamo che siano passati poi così tanti anni dalla "benedizione della puerpera" che le nostre nonne e le mamme "preconciliari" hanno dovuto ricevere...), e quello del "riscatto del primogenito" che, appartenendo di diritto a Dio, doveva essere oggetto del pagamento di un "riscatto" fatto di un'offerta sacrificale da parte dei genitori. Questi, sì, sono passi indietro, qualora tornassimo a celebrare la festa odierna con sentimenti di questo tipo; in realtà, la Liturgia non ha una dimensione cronologica, ma una dimensione celebrativa legata al mistero, per cui può succedere che, già proiettati verso la Quaresima e la Pasqua, ci ritroviamo a dare compimento al mistero del Natale con questa festa che la Chiesa ritiene tanto importante al punto da darle prevalenza rispetto alla domenica del tempo ordinario.
Ciò detto, se a noi sembra di fare un passo indietro, tuttavia oggi contempliamo una serie di persone che fanno dei passi avanti. Li fanno Maria e Giuseppe, che salgono gli scalini del tempio per compiere con quanto stabiliva la legge di Mosè; li fanno, soprattutto, i due vegliardi protagonisti di questa vicenda, Simeone e Anna, che lasciano che i loro passi stanchi e provati dall'età, vengano "mossi dallo Spirito" per andare incontro al mistero della loro salvezza, atteso per anni, per decenni, come quegli "ottantaquattro anni" della profetessa che altro non fanno se non moltiplicare la storia delle dodici tribù del popolo per il numero della pienezza e della perfezione, il sette, quasi a voler dire che ora si è compiuta la parola di salvezza che lei attendeva da sempre. Come la attendeva Simeone, che la canta in quelle meravigliose parole di abbandono in Dio che la Chiesa fa sue ogni sera, pregando la Compieta, prima di coricarsi, per portare a compimento un giorno, quello fatto di ventiquattro ore, che altro non è se non il simbolo del giorno della salvezza, che Simeone porta a compimento, come Anna, prendendo tra le sue braccia il Figlio di Dio fatto uomo.
Alla loro veneranda età, potevano benissimo smettere di camminare, non tanto fisicamente, quanto nella strada della fede, perché né l'uno né l'altra mai si erano sognati di abbandonare il cammino di Dio, nella loro lunga esistenza. Eppure, continuano a muovere i loro passi verso Dio; e Simeone, in particolare, lo fa proclamando una verità che, per l'epoca e per il luogo in cui si trovavano, è molto più sconvolgente di quanto si possa pensare. Siamo nel tempio di Gerusalemme, il luogo per eccellenza della presenza di Dio nella storia del popolo d'Israele, il luogo dei sacrifici e delle leggi da portare a compimento, il luogo dell'identità nazionale e religiosa delle dodici tribù d'Israele, unica cosa rimasta a loro dopo che le varie dominazioni avevano negato ogni libertà. Questo luogo è un luogo glorioso, proprio come dice Simeone del piccolo Gesù: "Gloria del tuo popolo, Israele". Ma prima di questa affermazione, forte già di per se stessa, perché identifica la maestosa potenza del tempio con la fragile delicatezza di un bambino, Simeone ne fa un'altra, che per il pio israelita aveva il sapore amaro della perdita d'identità: "Luce per rivelarti alle genti". "Genti" sta per "i Gentili", quelli che nei secoli successivi verranno definiti "i pagani", quelli che non appartenevano al popolo d'Israele e che quindi non avevano alcuna speranza di salvezza. Fino a qualche secolo prima (e parliamo dell'epoca dei Re d'Israele), l'unica relazione che si poteva avere con "le Genti" era quella di sconfiggerli militarmente votandoli allo sterminio e al saccheggio; terminato il periodo florido di libertà e sovranità, non restava che un'arma, quella della maledizione, per sconfiggere "le Genti", alle quali non era consentito benché minimamente avvicinarsi alle cose sacre d'Israele...men che meno al tempio.
Eppure, in quel luogo sacro, luogo dell'identità israelitica, luogo negato alle Genti, luogo in cui Dio non poteva che rivelarsi esclusivamente ai suoi figli prediletti, lasciando brancolare nelle tenebre dell'errore i popoli pagani nemici di Dio, quest'uomo segnato dagli anni e mosso dallo Spirito, prende tra le sue mani il Figlio di Dio, il Messia, il Tempio vivente, la Dimora di Dio fatta carne, e lo proclama "luce che si rivela alle Genti", prima ancora che "gloria del popolo d'Israele".
Dio è il Dio dei lontani, prima che dei vicini; Dio è il Dio dei malati, prima che dei sani; Dio è il Dio dei peccatori, prima che dei giusti. Simeone in poche parole annuncia a Gerusalemme, al tempio di Gerusalemme, di che pasta è fatto il Dio di Gesù Cristo. E non sarà semplice, accettare un Dio che farà "cadere e risorgere molti in Israele", che sarà "segno di contraddizione", che metterà a nudo "i pensieri di molti cuori", e che "trafiggerà l'anima" anche di Colei che è stata tramite della sua venuta nel mondo. Gesù sconvolgerà il cuore di sua madre, il cuore di chi lo ascolterà, il cuore di chi lo seguirà. Forse, nell'arco di quest'anno liturgico, sconvolgerà anche noi, con la sua immagine di Dio misericordioso che si rivela ai lontani. Ma la sfida è solo gli inizi.