Omelia (26-02-2020) |
padre Gian Franco Scarpitta |
Digiuno, preghiera, carità... Umiltà Elemosina, preghiera e di digiuno erano sempre state le colonne portanti della religiosità ebraica e uno degli autorevoli scritti che ce ne fanno menzione è il libro di Tobia. Il protagonista dello scritto, Tobi, è un uomo di grande fede e di carità disinteressata, dedito alle tante elemosine e alla sepoltura dei cadaveri abbandonati per la strada e persevera in questa sua lodevole condotta anche dopo l'infortunio agli occhi che gli farà perdere la vista. E dopo aver bene educato il figlio Tobia ad adottare anch'egli, con la moglie Sara, questa stessa condotta, a un certo punto commenta: "E' meglio la preghiera con il digiuno e l'elemosina con la giustizia, che la ricchezza con l'ingiustizia. Meglio praticare l'elemosina che accumulare oro."(Tb 12, 8) Isaia (58) associa anch'egli digiuno e preghiera, ma insiste tanto sul fatto che il "vero" digiuno consista nell'esercizio dell'accoglienza del forestiero e nelle tutela della vedova e nel bene da farsi a tutte le categorie sociali reiette e abbandonate. Digiuno, preghiera e opere di bene sono elementi coesi e imprescindibili per ogni buona religiosità e metterli in atto comporta essere davvero fedeli a Dio. Ai tempi di Gesù, anche farisei e scribi conoscevano la prescrizione del digiuno e dell'elemosina associata alla preghiera e vi facevano sempre ricorso. Addirittura i farisei digiunavano tre volte alla settimana, mentre secondo le prescrizioni era sufficiente farlo una volta all'anno, cioè il giorno dell'espiazione dei peccati (Lv 16, 29); anche Gesù, quale vero ebreo zelante osservante della Legge, ne era consapevole e vi si atteneva e in effetti nel suo insegnamento non vi è nulla che si opponga alla triplice prassi suddetta. Oltretutto, proprio Gesù digiuna ancor prima di intraprendere il suo ministero di annuncio del Regno, addirittura nel deserto e perfino sottoposto alle tentazioni del maligno; in quella circostanza l'affidamento al Padre che è la sua unica risorsa lo sostiene e certamente lo incoraggia anche lo zelo per i destinatari del suo messaggio, in definitiva per tutti noi. In questa pericope di Matteo però si individua un comune denominatore ai tre aspetti della preghiera, del digiuno e dell'elemosina: l'umiltà. Senza di essa nessuna delle tre prerogative è autentica o almeno nessuna di esse è intera ed edificante. A che serve infatti digiunare anche tre volte a settimana se poi si fa ostentazione di questa presunta virtù in modo da ottenere ammirazione dalla gente? La mortificazione corporale è finalizzata all'ascesi, all'elevazione dello spirito al Signore, è indice di privazione o annientamento personale perché Dio venga in noi esaltato e elevato, quindi vanto e vanagloria non possono avere parte alcuna in questa prassi. Il digiuno va fatto come personale segno di liberazione dalla zavorra ostativa all'incontro con Dio, come liberazione dall'innecessario perché lo spirito si elevi al Signore e appunto per questo non deve avere come obiettivo l'approvazione di chi potrebbe osservarci. Ai nostri giorni il digiuno che in tempi di quaresima ci si chiede non è poi così paradossale ed estenuante: occorre solamente non consumare carne il Mercoledi delle Ceneri e il Venerdi Santo e in tali giorni rinunciare a un pasto oppure, secondo le necessità, a una pietanza. Per estensione, il digiuno comporta che per tutto il periodo di quaresima (ma anche in altri tempi) si scelga di rinunciare a qualcosa a cui teniamo particolarmente, a privarci di qualche sollazzo, a ridimensionare qualche vizio e, meglio ancora, mortificare la lingua quando siamo tentati di infierire su qualcuno o offendere o osteggiare. Ma proprio perché è una prassi attualmente proporzionata alla nostre possibilità, essa non può essere accompagnata da protervia o alterigia, ma va fatta nell'umiltà e soprattutto non può prescindere dalla preghiera e dalla carità concreta. Ecco perché l'equivalente di tutto il cibo (e anche dei vizi o piaceri) a cui si rinuncia va destinato in opere di bene. Entrando nel tempio di Gerusalemme e gettando la propria offerta nella zona riservata al "tesoro", era prassi proclamare l'entità dell'offerta versata attraverso appositi strumenti simili alle trombe ed era comune usanza farisaica vantarsi e gonfiarsi per ogni singola opera di bene. Gesù condanna questo atteggiamento "ipocrita", che tradotto dal greco da' l'idea di un attore saltimbanco esibizionista, quindi di falsità e di millanteria. Gli ipocriti sono vuoti dentro, grandi nelle ostentazioni esteriori ma poveri in se stessi e non possono che ottenere ricompensa dalla loro stessa vanità e presunzione, non certo da Dio che guarda invece le intenzioni del cuore. Il Signore ama chi dono con gioia (2Cor 9, 7), secondo la sua reale sensibilità e secondo la bontà oggettiva del proprio cuore. Per questo motivo "è meglio un piatto di verdura con l'amore che un bue grasso con l'odio"(Prov 15, 17) e con questo concetto possiamo intendere che è sempre preferibile dare poco con vero amore e semplicità, piuttosto che tanto per pura ostentazione. Qualche autore osserva del resto che l'elemosina in quanto tale suppone sempre una posizione di superiorità da parte di colui che dona e una correlata inferiorità in colui che riceve e per ciò stesso comporta un marcato distacco fra le due parti. A differenza dell'elemosina, la carità è invece la donazione di se stessi e l'estensione agli altri dell'amore di Dio, già a prescindere da quello che si dona; la carità edifica ed esalta l'altro già quando all'altro so dare tutto me stesso e per ciò stesso presunzione, orgoglio, vanagloria, non hanno nulla a che vedere con la vera virtù del dare. E infine non è certo gradita a Dio la preghiera istoriata dal chiacchiericcio e dal banale multiloquio, perché se è vero che il troppo parlare non è mai esente da colpa (San Francesco di Paola) è altrettanto vero che l'orazione che adopera parole in eccesso e prolissità di concetti può condurre all'arroganza e alla presunzione, all'ostentazione di presunte capacità oratorie e perfino alla personale autoesaltazione davanti a Dio, come del resto si evince nel raffronto parabolico fra la preghiera del fariseo e quella del pubblicano (Lc 18, 9 - 14). Il brano evangelico che ci viene proposto in questa giornata sarebbe comprensivo della preghiera del Padre Nostro (omessa nel testo presente) che attesta che la vera preghiera è propensione ad esternare e a coltivare la fede, la propria confidenza nel Padre misericordioso; essa che riguarda la lode a Dio e alla sua grandezza, l'affermazione della sua volontà e la fiducia in lui come Provvidenza quanto al sostentamento materiale. E soprattutto comporta l'affidamento allo stesso Padre celeste perché ci si astenga dall'offenderlo nel peccato, quindi per inciso ai fini di amore e di carità. Appunto per questo nella preghiera il multiloquio non è appropriato: chi ha fede in Dio non necessita di tante parole per pregare; al contrario, meno si ha fede più si avverte il bisogno di sprecare parole. Dio ascolta un cuore attento e disponibile piuttosto che un monologo vacuo e inconcludente, peggio ancora se presuntuoso. Come già avveniva a proposito del "Ma io vi dico" che non aboliva ma portava a compimento la legge, nulla si toglie alla validità del trittico digiuno - preghiera -carità (meglio che elemosina), ma si vuole scongiurare il pericolo che la religiosità si trasformi in un fatto di commedia e di esibizionismo sterile e inconcludente, ma che siano contrassegno della virtù comune e irrinunciabile dell'umiltà. Soprattutto perché la preghiera unita al digiuno e alle opere di bene è elemento di supporto al processo di mutazione interiore e di trasformazione radicale che ci interessa tutti quanti e che ci orienta verso Dio, cioè la conversione. La quaresima, tempo privilegiato di penitenza e di conversione come altrettanto privilegiato è l'obiettivo di Dio, comincia allora con quella prerogativa contrassegnata dalle famose ceneri imposte sul capo di ciascuno, che sono indice di una volontà sentita di accrescimento di noi stessi, di elevazione e di apertura verso Altro da noi. E' infatti con umiltà, per umiltà e nell'umiltà che ci si converte a Dio e sempre l'umiltà disinteressata è la virtù che rende possibile l'esercizio fruttuoso dei tre coefficienti suddetti di preghiera, digiuno e carità che altrimenti sarebbero solamente azioni da istrioni saltimbanco. |