Omelia (10-04-2020)
padre Gian Franco Scarpitta
Il trionfo dell'amore e della vita

Per chi osservava l'esecuzione di una sentenza capitale di crocifissione era certamente preferibile veder morire i subito il condannato piuttosto che assistere alle torture che questi era costretto a subire appeso su un patibolo nel quale l'agonia era lenta, il dolore agli arti trafitti dai chiodi era lancinante e occorreva far leva sulle gambe per respirare. Alla croce oggi si preferirebbe la fucilazione o la camera a gas, non per niente Cicerone considerava la crocifissione "la tortura più crudele e più tetra".
Chi vediamo condannato adesso a questa morte truculenta? Chi sta soffrendo il patibolo infame della tortura e lo strazio del dolore, unito agli insulti, alle esecrazioni e alle canzonature degli astanti? Come accennerà poi Pietro, non è un assassino colui che soffre, ma l'autore della vita (At 3, 15), il Creatore del mondo, vittima in fin dei conti dell'ignoranza e dell'ostinazione degli uomini a non volersi aprire a una categoria di verità differente da quella a cui erano abituati. A morire sulla croce è il Santo, il Giusto (At 3, 14) che viene dato in pasto al dolore e alla morte in cambio di un malfattore, il Signore della gloria (1Cor 2, 8) che aveva dato la vita in abbondanza attraverso eloquenti opere di misericordia, soprattutto con la resurrezione del figlio unico della madre vedova e dell'amico Lazzaro. Era stato apportatore di vita e di speranza per mezzo delle stesse opere unite a parole e insegnamenti, di cui avevano beneficiato anche coloro che ora vogliono la sua tortura e la sua morte; tutto ciò che aveva detto e fatto aveva detto ogni cosa di lui, aveva dello straordinario e non era paragonabile alla sapienza o all'intelligenza comuni. Come poi dirà Paolo, si tratta piuttosto di una sapienza che non è di questo mondo e che a conoscerla si dovrebbe fare ben altro che crocifiggere il Signore della gloria (1Cor 2, 8).
L'insensibilità, la presunzione, l'orgoglio farisaico alimentato dal fanatismo e dall'ignoranza, la durezza di cuore sono state la causa della disconoscenza di questa sapienza e della condanna a morte del Figlio di Dio, che, autore di ogni benedizione, diventa egli stesso maledizione, poiché sta scritto "Maledetto chi pende dal legno"(Gal 3, 13). A condannarlo è stata anche l'arbitrarietà di una giustizia terrena del tutto tendenziosa e approssimativa, vista la natura non regolare del procedimento nei confronti di Gesù, cosi come lo riportano i vangeli e sul quale storici ed esegeti hanno più volte dibattuto. La cattura di un reo passabile di condanna, infatti, non andava eseguita di notte e neppure nottetempo potevano avvenire i processi capitali. Gesù viene invece arrestato in orari non consoni e di notte viene condotto nell'abitazione privata di Anna per un processo informale a porte chiuse, privo di fondamento anche perché svolto in un'abitazione privata e non nella "sala delle pietre squadrate" del tempio di Gerusalemme. Anche se Matteo cita che il sinedrio processa Gesù appena fattosi giorno, si tratta semplicemente dell'avallo del processo abusivo avvenuto durante la notte (Ravasi). Nel sistema giuridico ebraico andavano messi al vaglio tutti i testimoni e confrontate le loro escussioni, e invece falsi testimoni compaiono nel sinedrio senza che vengano prese in esame le loro affermazioni sulla presunta cospirazione contro il tempio. Cosa dicono contro Gesù? "Lo abbiamo sentito dire che può distruggere il tempio e ricostruirlo dopo tre giorni"; ma è chiaro a tutti che una simile espressione, per di più in assenza di rilevanze oggettive, non basta a condannare una persona. Ogni imputato non poteva essere processato senza il suo difensore legale, ma Gesù resta solo e impassibile senza ausilio da parte di nessuno. Le testimonianze "per sentito dire" non erano poi giudicate normalmente attendibili. Pilato, come egli stesso afferma, non aveva alcun capo di accusa per condurre Gesù alla morte poiché secondo la legge dell'impero solo gli assassini, i comprovati cospiratori e i rivoltosi meritavano la pena capitale e liberare Barabba al posto di Gesù era come lasciar circolare ai nostri giorni un pericoloso boss di Cosa Nostra. Non reggeva l'accusa di essersi fatto Dio o re dei Giudei come motivo di condanna a morte, neppure nello stesso ambito giudaico. Tantomeno poteva essergli imputata la lesa maestà contro Cesare.
Perché Gesù allora non rivendica i suoi diritti o almeno non protesta per ottenere valide disposizioni processuali? Perché resta in silenzio davanti alle accuse quando potrebbe reagire con rimostranze legittime e fondate? Semplicemente perché è proprio lui che si offre deliberatamente alla morte di croce, ben sapendo che non può prescindere da questa tappa dolorosa se si vuole portare a termine il progetto d'amore del Padre a beneficio di tutti gli uomini. Come aveva predetto più di una volta, sa benissimo che è necessario che lui consumi questo "calice" velenoso di sofferenza e che l'unico segno della sua vera onnipotenza altro non dev'essere che il "segno di Giona"(Mt 12, 38 - 41), cioè la sua permanenza di tre giorni nel sepolcro per poi uscirne vittorioso. Per Gesù quella quindi non è una condanna, ma una libera autoconsegna che lui fa senza riserve e senza opposizioni, quale Agnello innocente condotto al macello di cui Isaia 52 - 53. Al momento dell'arresto Gesù osserva che "Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre"(Lc 22, 53). Poco importa quindi se lui sia colpevole o innocente in sede processuale; la sua cattura non è stata dovuta alla competenza delle guardie o alla presunta astuzia del traditore Giuda e la sua mancata autodifesa non è dipesa dall'impotenza o dall'eccessiva timidezza nel controbattere le accuse. Gesù deve solamente realizzare il piano di amore impostato dal Padre, quello per il quale il suo sangue deve pagare sulla croce il nostro riscatto. Subisce pertanto il processo che noi dovremmo subire a motivo dei nostri peccati prendendo su di sé nelle frustate e nelle percosse tutta l'ignominia che meriteremmo noi. Sulla croce espierà poi i nostri peccati, riconciliandoci con il Padre e avvicinando la terra al cielo.
Dice il libro dell'Imitazione di Cristo che se vi fosse stato un sistema più adeguato per recuperarci alla salvezza Dio lo avrebbe certamente messo in atto, ma cos'altro potrebbe essere più caratterizzante e risolutivo se non il fatto che Dio stesso, nel suo Figlio Gesù Cristo, soffra il più atroce degli espedienti di condanna che l'umanità possa conoscere? Dio che è Amore rivela tutta la sua essenza semplicemente amando l'uomo fino all'inverosimile sulla croce, massima espressione dell'amore come dono sacrificato senza riserve.
Adesso vediamo Gesù spirare sulla croce e si ha l'impressione del vuoto e dell'oscurità. Sembra che le tenebre, che già hanno preso il sopravvento al momento della cattura e del processo, debbano ora prevaricare definitivamente in una apparente sconfitta di Gesù che lascia solamente il vuoto o l'insensatezza e la paradossalità del nulla. In realtà, rubando una frase a Bonhoeffer ucciso in un lager nazista: "E' la fine, per me è l'inizio della vita". Nella morte di Cristo sebbene in silenzio trionfano l'amore che vince la morte e con esso il prolungarsi stesso della vita che diventa immortalità.
Ci dice la Scrittura e la Tradizione che appena spirato Cristo non ha subito passivamente ma è andato ad annunciare la Buona Novella alle anime dei trapassati (1Pt 4, 6; 3, 18 - 22), soggiornando con coloro che erano perduti in eterno affinché ricevessero un giudizio di vita. La vita piena della novità importante di liberazione che scaturisce dalla croce.