Omelia (10-04-2020)
don Luca Garbinetto
La Chiesa è sotto la croce

Gesù è innalzato e attira tutti a sé. Attira il nostro sguardo, attira il nostro cuore. E restituisce uno sguardo di sovrana mitezza, e un cuore squarciato di gratuità e grazia.
E noi, dove siamo? Dove sta la Chiesa in questo frangente in cui si compie la salvezza per l'umanità intera? Il racconto della passione secondo l'evangelista Giovanni ha dettagli distinti dagli altri vangeli. Nei pressi della croce non c'è la folla. Vi sono i soldati romani, i pagani. E ci sono le donne, a fare da corona alla Madre, assieme al discepolo che egli amava.
Facciamo un passo indietro. Nell'Orto degli Ulivi, Gesù viene catturato, e il testo non menziona la fuga codarda dei suoi, che sono piuttosto irruenti e maldestri nell'uso della spada, come avviene per Pietro. Gesù, invece, che non viene descritto agonizzante e triste, si preoccupa per loro: "Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano" (18,8). Certo, degli apostoli rimane comunque lo smarrimento e l'incapacità a farsi carico del dramma, e Pietro vigliaccamente rinnega il Maestro nel cortile del sommo sacerdote. Ma nella cura che Gesù ha dei suoi, ai quali ha donato un lungo e commovente discorso di commiato attorno al tavolo dell'ultima cena (capp. 14-17), sentiamo vibrare un annuncio nuovo, un preludio del compimento: conta molto di più la capacità del Figlio di Dio di portare su di sé la nostra povertà, che la nostra povertà stessa. È Gesù che si carica della croce, e non è nemmeno aiutato dal Cireneo. Giovanni insiste molto sulla regalità dell'uomo di Nazareth, che decisamente governa la storia e gli eventi nel dono totale di sé che ci salva. Siamo nelle sue mani, nelle sue braccia: la storia appartiene a Lui, anche quando a noi sfugge!
Ecco, in questa scena maestosa, dove il dolore di ciascuno di noi è assunto integralmente, ma allo stesso tempo superato e vinto dalla potenza dell'amore, dove sta la Chiesa? Che in altri termini significa chiederci dove stiamo noi, anche oggi, giorni pasquali nei quali ci sentiamo in qualche modo dispersi e smarriti, disseminati nelle nostre case con il timore di essere lontani da Lui e dal suo sguardo, attirati senza poterlo raggiungere per farci bagnare dai zampilli di acqua e sangue del suo costato. Dove siamo noi, come Chiesa, oggi che nella memoria della Sua passione non possiamo radunarci come folla nella chiesa edificio?
Eccoci, allora, di nuovo lì, dentro la Parola che ci consegna l'evento. Sotto la croce vi sono le donne, e soprattutto la Madre e il discepolo amato. E Gesù consegna lui a lei, e lei a lui. Toccante icona di pietà figliale, ma, ben oltre ciò, azione di ostetricia: qui nasce la Chiesa! Lo possiamo dire senza paura di tradimenti esegetici. Certamente ci vorrà la potenza dello Spirito nella Pentecoste, ma qui già avviene il preludio, e infatti per Giovanni la morte di Gesù è ‘consegna dello spirito' (cfr 19,30), e la lancia che colpisce il fianco del Signore defunto apre il varco della vita battesimale e sacramentale. Ma l'essenza, da parte nostra, è manifestata da quella presenza: la Madre e il figlio nuovo, o meglio tutti noi suoi figli e fratelli del Signore rappresentati dal discepolo amato. Siamo lì. Lei è lì, con noi.
Lei "stabat", verbo tanto amato dalla tradizione liturgica e devozionale; verbo tanto caro a Gesù, che identifica l'amore con un "rimanere" (cfr. 15,9). La Chiesa è la Madre che rimane ai piedi della croce e accoglie fra le sue braccia, con il Figlio, tutti i figli sofferenti e perseguitati. La Chiesa è l'incontro della Madre con i nuovi infanti nella fede, tanti Giovanni bisognosi di prendersi cura di lei per permetterle di essere per tutti Madre, e per allenarsi nell'arte insegnata dal Maestro, quella di lavare i piedi gli uni agli altri. La Chiesa è germoglio, piccolo gregge, che sostando fedele ai piedi dello sguardo e del cuore del Signore morto per noi ne custodisce la promessa di resurrezione e avvia la catena affinché tornino le folle, si convertano i pagani, scoprano i potenti di essersi sbagliati ad uccidere l'amore.
In questi tempi di dispersione, dunque, la Chiesa siamo noi se restiamo ai piedi di ogni crocifisso di cui Gesù ha portato il dolore. Lo possiamo fare in una cura amorevole fatta di gesti e parole semplici. Ma lo possiamo fare anche accogliendo, forse con le stesse lacrime di Pietro, le nostre intime ferite e i nostri cuori squarciati. L'edificio chiesa oggi è spoglio (anzi, spogliato, come Gesù) e nudo nei suoi abbellimenti e in tutto ciò che sa di vita, per ricordarci che anche noi abbiamo bisogno di lasciarci spogliare delle vesti dell'orgoglio e dell'accidia, che mascherano la nostra paura della morte. Siamo spogliati di sicurezze, gesti, riti per lasciar penetrare nell'intimo la carezza della Madre, che si prepara ad avvolgerci come il Figlio in un lenzuolo di tenerezza e di misericordia. Sono le fasce del nascituro, di colui che entra in una vita nuova.
Restiamo, come lei, spogliati di tutto. Ma con accanto una Madre, un fratello, un povero. Lì ci accorgeremo che la Chiesa c'è, più viva che mai, e unita come la tunica del Signore, "tutta di un pezzo da cima a fondo" (19,23). Non perché rannicchiata nei propri edifici, ma perché sparpagliata a vegliare ai piedi del dolore del mondo dentro tutte le case della nostra umanità ferita ed amata fino alla fine da Dio. Questa è la potenza della Parola che si compie, che ci fanno uno in Lui. Le altre sono vuote parole.