Omelia (26-04-2020) |
don Alberto Brignoli |
Via, di corsa! Credo siano pochi i racconti evangelici che hanno avuto una vera e propria inflazione di rappresentazioni pittoriche quanto le ha avute il racconto dell'apparizione del Risorto ai discepoli di Emmaus. Potremmo citare davvero centinaia di autori di ogni epoca e di ogni stile: ma vorrei brevemente soffermarmi su due di essi, uno contemporaneo e l'altro collocato come ponte tra Rinascimento e Barocco, entrambi (ognuno per aspetti diversi) legati alla nostra terra bergamasca. Parlo di Arcabas e di Caravaggio. Arcabas tra il 1993 e il 1994 dipinge un intero ciclo dedicato alla vicenda di Emmaus per la Chiesa della Risurrezione della Comunit? "Nazareth" di Torre de' Roveri (BG). Caravaggio dipinge addirittura due tele con lo stesso tema: la prima (la pi? famosa e accurata) ? datata intorno al 1602 ed ? conservata a Londra, mentre la seconda (del 1606) ? conservata alla Pinacoteca di Brera a Milano, e anch'essa ? comunque un grande capolavoro. Ma quella su cui mi voglio concentrare ? la prima, soprattutto per il dinamismo che essa trasmette: lo stupore dei due discepoli alla preghiera di benedizione e alla frazione del pane da parte del Risorto si trasforma immediatamente in un movimento che testimonia l'intenzione di partire, di andare in fretta ad annunciare ci? che hanno visto (uno dei due discepoli, forse Cl?opa, ? in atto di alzarsi dalla sedia; l'altro, forse l'apostolo Giacomo, getta addirittura a terra il tovagliolo, pronto gi? a correre fuori). Il dinamismo, nel ciclo pittorico di Arcabas, la fa da padrone: addirittura, nella scena finale (quella che ha attirato particolarmente la mia attenzione), si vede la sedia di uno dei due pellegrini gettata a terra dalla fuga improvvisa, testimoniata pure dalla porta spalancata su un meraviglioso cielo stellato, una porta che ha fatto entrare nella stanza un soffio dello Spirito talmente forte che neppure le candele resistono accese. Ma della loro luce, non c'era pi? bisogno: il Risorto aveva gi? rischiarato con la sua luce le tenebre del cuore dei due discepoli. Perch? ho voluto partire da queste due rappresentazioni pittoriche? Perch? - forse proprio a motivo di quel dinamismo di cui parlavo - a mio avviso colgono l'essenza di questa narrazione, nella quale rischiamo di far convergere la nostra attenzione su due particolari, che non sono affatto marginali (anzi, forse sono proprio quelli centrali, anche sintatticamente parlando), ma che tuttavia rischiano di essere parziali e quindi di non farci cogliere il significato profondo di ci? che avvenne quella sera sulla strada che da Gerusalemme porta a Emmaus. Mi riferisco alla famosa invocazione "Mane nobiscum quoniam advesperascit", "Resta con noi, perch? si fa sera" (sulla quale, pure, potremmo disquisire riguardo al suo utilizzo artistico soprattutto in campo musicale, da Machetta al Gen Rosso, da Giombini a Frisina, e ancor prima chi ha rivestito con queste parole una gi? famosa cantata di Bach), e alla scena drammatica e carica di emotivit? dello spezzare il pane: da qui, la concentrazione anche dal punto di vista teologico, spirituale e pastorale, sul tema dell'Eucaristia come primo gesto del Risorto, e quindi come aspetto centrale della vita della Chiesa. Non ci piove, che l'Eucaristia sia "fonte e culmine di tutta la vita cristiana", come bene ci ricorda il Concilio Vaticano II (LG 11): e in questi giorni in cui non la possiamo ancora celebrare in piena comunione con tutta la comunit? dei fedeli, ce ne accorgiamo maggiormente. Vorrei, per?, che tornassimo a considerare l'Eucaristia nella sua pienezza, ovvero nel contesto pieno della Celebrazione Eucaristica, come ce la insegna proprio il racconto di Emmaus, che possiamo a ragione definire come "la prima messa celebrata dal Risorto", se non addirittura "la prima messa" in assoluto celebrata da Ges? con i suoi discepoli, se la consideriamo nella sua globalit?, soprattutto comparandola al rito della Santa Messa come la tradizione ce l'ha tramandata. Il racconto dell'ultima cena da parte degli evangelisti sinottici ci parla della benedizione sul pane e sul vino nel contesto della cena ebraica, e dell'istituzione del Sacramento dell'Eucaristia; Giovanni, come sappiamo, salta a pi? pari il tema dell'Eucaristia nell'ultima cena, affidandolo al capitolo 6 della sua opera (che stiamo leggendo in questi giorni nella liturgia feriale), e concentrandosi sul grande Sacramento dell'Amore con il gesto della lavanda dei piedi. Ad ogni modo, dell'ultima cena non ci vengono raccontati i momenti dell'atto penitenziale, della Liturgia della Parola, della Liturgia Eucaristica e dell'invio missionario cos? come lo celebriamo da secoli nella santa messa: tutti elementi, invece, che ci vengono narrati nel racconto di Emmaus, e che ? necessario vivere nella loro pienezza, se vogliamo comprendere appieno il significato dell'Eucaristia. Andare a messa, essere in comunione con il Risorto e con i fratelli, non pu? coincidere esclusivamente con lo spezzare il pane e con il fare la comunione (cosa che peraltro a Emmaus, stando al racconto, pare che non avvenne neppure... non hanno nemmeno fatto a tempo a "mangiare" quel pane, a quanto pare, che il Risorto era gi? sparito dalla loro vista ed essi avevano gi? buttato a terra tovaglioli e sedie ed erano corsi a Gerusalemme ad annunciare agli altri ci? che avevano veduto e vissuto). Andare a messa, significa camminare lungo le strade della nostra vita e lasciarci affiancare da questo sconosciuto Pellegrino al quale possiamo aprire il nostro cuore con tutte le sue angosce, le sue sofferenze, le sue speranze infrante (e perch? no, anche con le sue incredulit?) affinch? egli ci doni la sua misericordia; andare a messa, significa ascoltare ci? che egli ha da dirci, perch? solo aprendo il nostro cuore alla sua Parola possiamo comprendere il mistero della nostra redenzione; andare a messa, significa sederci a condividere quel Pane che egli spezza per noi e che ci apre gli occhi, la mente e il cuore nella misura in cui anche noi lo sappiamo condividere con i nostri fratelli; andare a messa, significa uscire e testimoniare con la nostra vita che il Signore ? risorto, e che la messa finisce con un "Deo Gratias" che non sa di "menomale, che barba!", ma che significa "Ti ringrazio, Dio, per quel dono che mi hai fatto e che ora io condivido con i miei fratelli nella vita di ogni giorno!". Basta con le messe in cui l'unico scopo sembra quello di andare a ricevere Ges? nell'Eucaristia per fare una profonda esperienza personale di lui, rinchiudendolo in un intimismo sterile che fa stare bene solo noi! A messa si va non solo per "fare" la comunione, ma per "essere" in comunione: perch? quell'Eucaristia che riceviamo (e che speriamo davvero nuovamente di ricevere presto tutti quanti) non possiamo tenerla solo per noi sentendoci cos? a posto in coscienza, ma dobbiamo condividerla con gli altri. E condividerla significa fare come i due discepoli di Emmaus: correre, anche se ci troviamo nel cuore della notte e nella notte del cuore, ad annunciare a tutti che Ges? ? vivo, che Ges? ? Vita! |