Omelia (14-09-2003) |
Paolo Curtaz |
La croce non è da esaltare, la sofferenza non è mai gradita a Dio, toglietevela dalla testa, subito, quella tragica inclinazine all'autolesionismo che troppe volte crogiuola il critiano nel proprio dolore pensando che questo lo avvicini a Dio. Religione che rischia di fermarsi al venerdì santo la nostra, perché tutti abbiamo una sofferenza da condividere e ci piace l'idea che anche Dio la pensi come noi. No, lo ripeto alla nausea: la felicità cristiana è una tristezza superata, una croce abbandonata perché ormai inutile e questa croce vuota – oggi - viene esaltata. La croce non è il segno della sofferenza di Dio, ma del suo amore. La croce è epifania della serietà del suo bene per ciascuno di noi. Fino a questo punto ha voluto amarci, perché altro è usare dolci e consolanti parole, altro inchiodarle a tre chiodi sospeso fra cielo e terra. La croce è il paradosso finale di Dio, la sua ammisisone di sconfitta, la sua ammissione di arrendevolezza: poiché ci ama lo possiamo crocifiggere. Esaltare la croce significa esaltare l'amore, esaltare la croce significa spalancare il cuore all'adorazione allo stupore. Davvero innalzato sulla croce (Giovanni non usa mai la parola "crocifisso" ma "osteso" cioè mostrato) Gesù attira tutti a se. Davanti a Dio nudo, sfigurato, così irriconoscibile da necessitare di una didascalia sopra la sua testa, possiamo scegliere: cadere nella disposizione o ai piedi della croce. Dio – ormai – è appeso, abissalmente lontano dalla caricatura che ne facciamo egli è li, donato per sempre. Sì, amici, c'è di che celebrare, c'è di che esaltare, c'è di che esultare. Appeso tra il cielo e la terra, in segno di perenne alleanza, hai amato i tuoi che erano nel mondo fino alla fine. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. |