Omelia (16-01-2003) |
padre Lino Pedron |
Commento su Marco 1,40-45 Secondo la concezione ebraica, la lebbra era "la primogenita della morte" (Gb 18,13). Chi veniva segnato da questa malattia doveva tenersi separato dagli altri e non poteva avvicinarsi a nessuno. I lebbrosi erano lasciati languire lungamente in una lenta morte, e per giunta venivano infamati come peccatori, perché la lebbra era considerata il castigo di gravi peccati. La legge ebraica dichiarava intoccabile un lebbroso, ma per Gesù non c'è legge che valga quando c'è di mezzo il bene di un uomo. Gesù è la "buona notizia" di uno che tocca il lebbroso e lo guarisce. Egli è il medico venuto per guarire tutti i mali e tutti i malati (Mc 2,17). Solo Gesù può liberare la nostra vita dalla lebbra che la devasta. Gli uomini e le leggi riconoscono il male e lo condannano, ma solo Gesù lo guarisce. Il nostro diritto di accostarci al Signore non viene dal fatto di essere giusti e degni, belli e buoni, ma proprio dal fatto che siamo ingiusti e immondi, brutti e peccatori. Il diritto di precedenza è dato ai malati più gravi. Dio guarda il nostro bisogno, non il nostro merito. Questo è il vangelo, la buona notizia che ci salva: Dio mi ama perché mi ama; la mia miseria non è ostacolo, ma misura della sua misericordia. Dio non è la legge che mi giudica né la coscienza che mi condanna: è il Padre che dà la vita, e mi ama più di se stesso, senza condizioni, così come sono. Il mio male non lo allontana, ma lo attira verso di me con un amore che non conosce altro metro che quello del mio bisogno. San Tommaso d'Aquino ha scritto: "Dio non ci ama perché siamo buoni, ma ci rende buoni amandoci". Il comportamento antipubblicitario di Gesù ci ricorda un importante proverbio: "Il bene non fa rumore e il rumore non fa bene". Coloro che credono con umiltà, come la suocera di Pietro o il paralitico, non hanno bisogno di essere zittiti: servono e ubbidiscono. |