Omelia (12-02-2006)
don Luciano Sanvito
Del come dietro 'carità' si celi 'orgoglio'

Del come dietro l'opera della carità si celi il grande nostro orgoglio.

Se ci capitasse di far opere di carità, stiamo bene guardinghi affinché non succeda anche a noi d'esser contagiati da ciò che benefichiamo a titolo e modo nostro.

Se incontrando un poverello che ci chiedesse l'elemosina, noi cominciassimo a far disquisizioni internamente al nostro cuore, del come si permetta costui di giacere lì sulla nostra strada a interrompere la nostra serenità, e del come i nostri soldi adesso lui li andrà e dove e con chi a spendere, e se sia bene o male che noi gli facciamo l'elemosina; e poi, alla fin fine, gli diamo un po' di quello che ci avvanza in saccoccia, che nulla ci costa, in fin dei conti; e ce ne torniamo alle nostre faccende domestiche e quotidiane, che ne dite, signori? Chi è in questo caso il vero poverello: quello dell'elemosina, oppure noi poveri di carità vera, di umiltà e di accoglienza sincera al bisogno altrui?
Quello, che sia povero di soldi, chissà...ma noi certamente, in quel momento, stiamone certi, siamo davvero poveri nel cuore.
Dovremmo iniziar noi a imparare a limosinare la carità!

Sarebbe ancora come se un lebbroso del corpo, avvicinandosi a noi e vedendoci allontanare da lui con il cuore, dopo esserci avvicinati al suo capezzale per farci vedere bravi soccorritori, ci interpellasse e ci chiedesse: ma non vedi, o caro malato del cuore, la lebbra che ti fa marcire la bellezza interiore della quale ti vai inalberando?
Chi è il vero lebbroso, adunque: lui, o me? Lui che lo è nel corpo e mi è segno della mia lebbra dello spirito? Non son forse io stesso?

Acciocché dunque possa un giorno succedere di essere sinceri soccorritori, veri e non falsi umili sotto spoglie di gran limosinieri del corpo e dei suoi bisogni.

E non ci debba accadere di far tutto e a tutti per dirigere in fin dei conti a noi, a noi medesimi, quasi a farci il monumento con la carità fatta di opere belle e visibili, che ci facciano dire dagli altri: che bravo, che buono, che uomo!

Che dunque la carità sia a buon fine, e non alla fine.
Ma a quale buon fine?
Imparando nell'esercizio della carità a far di mira non noi stessi, che è subito opportuno svincolare dal beneficato, ma mirando là dove questa carità sia più fulgida e evidente, facendo in modo che il beneficato sia testimone non di noi, ma di essa, della stessa carità, e invitandolo a porsi vicino ai luoghi e alle occasioni che la carità fanno risplendere e approfondire, a vantaggio di lui e di tutti: che sia una chiesa, che sia un ritrovo di altri bisognosi, che sia il rimandarlo a un atteggiamento di rinnovata serenità...ma non a noi, non a noi la gloria!

Non a noi...perché dietro l'opera di carità giace sempre il diabolico e insaziabile nostro orgoglio, che ci conduce, se non ce ne accorgiamo, all'essere avvinghiati strettamente e irreparabilmente a quell'albero dove anche oggi si ripresenta il nostro peccato originale.