Omelia (25-12-2020) |
don Luca Garbinetto |
Il mistero della gioia "Vi annuncio una grande gioia" (Lc 2,10). È la gioia la protagonista vera di questa santa notte. Alla gioia vogliamo dare tutta la nostra attenzione, al suo mistero che si compie. La gioia è compimento dei nostri desideri, risposta alla nostra attesa. Per tutto l'Avvento l'abbiamo ricordato: c'è da desiderare qualcosa, c'è da attendere qualcuno, perché possa realizzarsi il mistero della gioia. E chi stavamo aspettando? Un bambino... e con lui, il dono di uno sguardo nuovo, di una logica diversa. Perché l'evento del Natale, già da chi l'ha vissuto, può sempre essere guardato con occhi ben differenti tra loro, con sguardi addirittura contrapposti. C'è chi guarda come quelli della casa, quelli che non seppero fare spazio al piccolo. Non c'era alloggio, infatti, per lui e per i suoi giovani genitori nella parte anteriore dell'abitazione, dove riposavano di solito le famiglie. E chissà, trattandosi della città di Davide, antenato di Giuseppe, forse c'erano anche dei loro parenti lì con loro. Certamente, non era un luogo isolato, anzi. Ci doveva essere molta confusione e, nel fondo della tipica dimora ebraica, lo spazio per le bestie, e la mangiatoia. Da lì saliva il tepore del fiato degli animali, e scaldava corpi affaticati. Poco calore, però, avevano i cuori. La gente, lì dentro, era distratta, quasi indifferente. Il vagito del bimbo non suscitò particolare attrazione. Forse era normale, forse l'insignificanza dei bimbi cominciava fin dalla nascita. Più probabilmente, c'era da stare lontano dal sangue di una madre partoriente, per non diventare impuri. Così, lo sguardo di chi è indaffarato e frenetico nella preoccupazione di un censimento, di un conteggio, di un calcolo si irrigidisce, magari dentro schemi apparentemente benedetti: ‘Cosa può venire di buono da Nazareth?'. Betlemme non è città grata ai Galilei. Ecco lo sguardo autoreferenziale di tanta brava gente di oggi. Semplicemente occupata in mille faccende santissime, affannata su questioni importanti e fondamentalmente incapace di vedere il dettaglio, di cogliere la traccia, di lasciarsi sfiorare dall'inedito. C'è invece, dall'altra parte, chi sta all'aperto, nella notte, come i pastori, complici inattesi degli angeli e del loro giubilo. Anche i pastori sono al lavoro, sono occupati. E sono anche ai margini, loro già impuri perché hanno a che fare con le pecore. Forse per solidarietà con la Vergine Madre non avranno timore di avvicinarsi subito. Ma prima c'è un passaggio da non perdere: i pastori lavorano, certo, ma non sono distratti. Anzi, la loro arte è proprio quella di custodire, e quindi di vigilare. Hanno dunque uno sguardo attento, pronto, fine. Scrutano, vanno in profondità dentro le ombre, allenati a non dare per scontato che sia tutto favorevole quello che intravedono, ma nemmeno tutto un pericolo. I pastori sanno percepire i segnali e scoprire gli indizi, perché hanno occhi e cuore aperti. Il tutto, per la premura di vegliare il proprio gregge. Sono esperti di cura, per questo hanno uno sguardo disponibile, aperto alla novità. E un cuore - questo soprattutto - disposto a stupirsi! I pastori sono abituati alle stelle, ecco il segreto. Raramente chiudono del tutto gli occhi, meno ancora si guardano ansiosi l'ombelico. C'è da tenere lo sguardo allerta e la fronte alta, anche se messi da parte dalla società. I pastori alzano gli occhi, nelle notti fredde d'inverno e in quelle tiepide della primavera. Lassù, quando la luna non li abbaglia di riflessi solari, hanno imparato a riconoscere le stelle. Sono quasi più esperti dei magi, raffinati studiosi. E le stelle (‘sidera' in latino) sono la fonte del desiderio. I pastori le vedono, ma non le possono acchiappare, tanto meno possedere. Dunque ne sentono la presenza certa e allo stesso tempo l'indicibile mancanza. Nella notte i pastori, voglia o non voglia, sono immersi nel mistero della vicinanza del cielo, che si fa compagno con le luci fioche e costanti delle stelle, e assieme della sua lontananza, perché irraggiungibile. Così abitano sempre dentro l'icona del loro cuore, del cuore di ogni nuovo. Perché così siamo noi: in noi coesiste l'intuizione di una presenza consolante e penetrante, e allo stesso tempo la nostalgia di non capirla né mai poterla possedere. È il mistero della vita, mistero dell'umanità. Chi ci abita senza sfuggirlo sta nell'anticamere del mistero della gioia. Infatti i pastori riconoscono che il canto degli angeli è per loro. Non solo lo vedono, ma percepiscono l'appello. Altri, pur vedendolo, forse sarebbero tornati distratti alle proprie occupazioni, ai propri numeri, ai propri schemi. I pastori siamo noi, quando rinunciamo a ‘far tornare i conti'! La vita vera, la vita intima, la nostra vita è soprattutto pienezza, che però non elimina la mancanza. È infatti un traboccare verso l'altro, non uno stringere dentro i nostri confini. La vita in noi è esuberante, perché viene dal desiderio, ci spinge fuori: ed è così che rimane il nostro limite, mentre allo stesso tempo sperimentiamo l'oltrepassare la rigidità dei programmi. La vita, insomma, è relazione. Nell'andare oltre noi stessi, diventiamo noi stessi. Come Maria, che porta il mistero in sé e, come ogni madre, lo sente parte del proprio corpo, ma sa bene che in realtà non potrà mai possederlo. L'altro non è mai mio, mentre nell'andargli incontro e nell'accoglierlo egli fa' che io sia sempre più me stesso. Più è intimo l'incontro, più è profonda la consegna, più nel perdersi ciascuno si ritrova. Da qui sgorga la gioia: dal divenire ciò che siamo! Tu e io, dunque, abbiamo bisogno di accorgerci gli uni degli altri, percorrendo vigilanti le notti dell'esistenza dove la solitudine non è sinonimo di isolamento, bensì di desiderio e mancanza. Dunque, di opportunità di incontro. E Tu, Gesù, Signore, più di ogni altro ci manchi. Eppure Tu, proprio Tu, vieni. Rendici grembo che ti accoglie, per lasciarci riempire di gioia. La gioia di riconoscere il nostro infinito desiderio ricolmo della tua traboccante Presenza. |