Omelia (01-01-2021) |
don Michele Cerutti |
Si conclude l'ottava di Natale e la Chiesa ci esorta a contemplare la Madre di Dio la Vergine Maria e a riflettere sul dono della Pace. Riconoscendo nella Vergine Maria la maternità di Dio si ha il fondamento tutti i privilegi. Nel V secolo d.c., Nestorio, patriarca di Costantinopoli, combatte il titolo di Theotókos (Madre di Dio). Il Concilio di Efeso (431) condanna Nestorio: affermando innanzitutto il dogma dell'unità di Cristo, in un'unità secondo l'ipostasi, cioè secondo la persona, e di conseguenza afferma che Maria deve essere detta «Madre di Dio» (Theotókos). Efeso parte da una definizione Cristologica, ma in conseguenza fu anche mariologica. Quando fu definito il carattere personale divino dell'uomo Cristo, la maternità di Maria fu definita come divina. Ci viene offerta con Efeso una verità importante: Gesù è insieme vero Dio e vero uomo. Dicendo che Maria è Madre «di Dio» diciamo che Gesù è vero Dio; dicendo che Maria è «Madre» di Dio diciamo che Gesù è vero uomo; e diciamo anche che in lui la divinità e l'umanità sono unite nella stessa persona. Il titolo Madre di Dio è una professione di fede e non un mito o simbolo. Di Lei la Chiesa ci invita sempre a riflettere e le parole non sono mai sufficienti per descrivere la bellezza che Dio ha operato in Maria. Mi aiuta pensate, Jean Paul Sartre, un filosofo marxista a esprimere la grandezza della Madre di Dio in una opera scritta nel campo di concentramento. L'opera mette in scena la storia di un capovillaggio ebreo, Bariona, che, di fronte all'ordine del procuratore romano di aumentare le imposte, accetta il pagamento chiedendo però agli abitanti del luogo di non fare più figli. L'intento è di fare in maniera tale che Roma sia costretta a esercitare il suo potere solo sul deserto. Nel suo imperativo suicida Bariona non sa ancora che sua moglie Sara è in attesa di un figlio. Tuttavia, non vuol desistere dalla scelta a cui la consorte si oppone. Quando Bariona viene informato dai pastori della nascita del Messia in una stalla di Betlemme il capo ebreo medita in cuor suo di uccidere il bambino, di sopprimere questa vuota speranza. Una volta giunto a Betlemme vi trova Sara e, presso la capanna, scorge una folla inginocchiata, commossa e felice. Sorpreso, desiste dal suo proposito e, alla notizia che Erode vuol ammazzare Gesù, raduna i suoi, raccoglie le armi, e, consapevole di andare a morire, va incontro ai soldati del re. L'autore, che era un esistenzialista convinto, che non aveva nessuna prospettiva soprannaturale afferma su Maria: La Vergine è pallida e guarda il bambino. Sul suo viso uno stupore ansioso, che non è apparso che una volta su un viso umano. Perché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne, ì] frutto del suo ventre. L'ha portato per nove mesi, gli darà il suo seno, e il suo latte diverrà il sangue di Dio. In certi momenti dimentica che è Dio: lo stringe tra le braccia e gli dice: "Piccolo mio". In altri momenti rimane interdetta e pensa: "Dio è là" e si sente presa da un orrore religioso per questo Dio muto, per questo bambino terrificante. Poiché tutte le madri sono così attratte, a momenti, verso questo frammento ribelle della loro carne che è il loro bambino e si sentono in esilio davanti a questa nuova vita, che è stata fatta con la loro vita. Ma nessun bambino è stato più rapidamente e crudelmente strappato a sua madre, perché è Dio ed è oltre tutto ciò che lei può immaginare. Penso che ci sono altri momenti, rapidi e difficili, in cui Maria sente nello stesso tempo che Gesù è suo figlio, il suo piccolo e che è Dio. Lo guarda e pensa: "Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. E' fatta di me, ha i miei occhi e la forma della sua bocca è la forma della mia. Mi assomiglia. E' Dio e mi assomiglia!" Nessuna donna ha avuto in sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo che si può prendere fra le braccia e coprire di baci, un Dio caldo che respira e sorride. E' in quel momento che dipingerei Maria, se fossi pittore, e cercherei di rendere l'espressione di tenera audacia e di timidezza con cui protende il dito per toccare la dolce piccola pelle di questo bambino Dio di cui sente sulle ginocchia il peso tiepido e che le sorride.
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