Omelia (14-02-2021)
padre Gian Franco Scarpitta
Malattia e peccato

I lebbrosi, secondo la legge del Levitico, erano persone impure e inavvicinabili. Se qualsiasi malattia grave era considerata associata a un peccato commesso di cui pagavano dazio, la lebbra era fra tutte quella più impietosa in tal senso e considerava coloro che ne erano affetti maledetti e derelitti, addirittura cadaveri ambulanti. Fin quando non superavano definitivamente la loro situazione, dovevano vivere fuori dal centro urbano e attenersi alle prescrizioni del sommo sacerdote.
La pagina di cui alla prima lettura di oggi si commenta da sola. La condizione dei lebbrosi, meschina e deprimente, suscitava sdegno nella società e per questo l'atteggiamento di Gesù nei confronti di chi venisse affetto da questa grave malattia è del tutto rivoluzionario e impensabile per la mentalità dell'epoca. Gesù infatti supera i pregiudizi esistenti e dona un inaspettato riscatto sociale a coloro che sono ammalati di lebbra. Per lui la malattia non è necessariamente legata a un peccato o a una colpa commessa, ma si verifica perché nella persona gravata dal male fisico si rendano manifeste le grandi opere di Dio (Gv 9, 3); perché cioè Dio possa dimostrare la sua misericordia e la sua condivisione attenta con coloro che soffrono e fare propria la loro stessa infermità essendo egli stesso destinato alla sofferenza atroce del patibolo. Il dolore ha la sua ragione e il suo senso appunto a partire dal mistero della croce nel quale ogni ammalato è identificato e sostenuto dal Signore. La malattia inoltre è occasione di accrescimento della virtù, della costanza, della perseveranza e soffrire non è mai inutile perché ci rende partecipi della missione stessa di Cristo. Non va dimenticato infatti che accogliere con coraggio e costanza la prova del dolore fisico contribuisce ad eliminare gran parte dei nostri peccati e ad alleviare anche le pene morali e le mancanze degli altri. Come dice Paolo "completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo Corpo che è la Chiesa"(Col 1, 24). Certamente la passione di Cristo da sola è più che sufficiente a redimere l'umanità e ad essa non manca proprio nulla. Tuttavia come chiesa, cioè come membra di Cristo a lui vincolate, noi siamo partecipi della sua missione e della sua redenzione e quindi la sofferenza del Signore ha un prolungamento nella nostra malattia. Ne siamo partecipi, come pure siamo partecipi nella nostra stessa carne, all'opera della redenzione e della salvezza. In parole povere, chi accoglie con pazienza e risolutezza e in spirito di fede il dolore e l'infermità fisica collabora con Gesù a redimere e a salvare il mondo: come egli patì per noi sulla croce, così continua a patire nelle nostre membra mortificate, sempre a edificazione di tutti quanti i nostri fratelli.
Essere partecipi della redenzione attuata dalla croce è privilegiato e singolare.
Dicavamo dunque che Gesù esclude tutti i pregiudizi e le illazioni intorno al dolore e alla malattia e per questo si atteggia in modo insolito nei confronti di chi soffre, soprattutto verso i lebbrosi: li avvicina, parla con loro e addirittura li tocca, come nessun altro uomo del suo tempo farebbe. A quel povero infermo che gli suggerisce: "Se vuoi puoi sanarmi", dice semplicemente: "Lo voglio, sii sanato". La misericordia trionfa sulla malignità umana e sul pettegolezzo e ha ragione delle ingiustizie e delle discriminazioni.
Occorre però prestare attenzione: Gesù supera la mentalità del disprezzo comune e dell'aberrazione nei confronti dei peccatori e tratta chiunque soffra con il metro dell'amore e della misericordia; questo però non pregiudica che il suo intervento esiga anche una sorta di attenzione e di ascolto della sua parola. I miracoli sono sempre associati alla figura e al messaggio di Gesù e possiamo affermare che non vi nessun evento prodigioso del Signore che non sia accompagnato almeno da una pedagogia: compiendo il miracolo infatti Gesù ogni volta insegna, annuncia, profetizza e soprattutto invita alla fede in lui. Nessun miracolo, tantomeno nessuna opera di guarigione, è mai finalizzato a se stesso. Gesù non è un esibizionista saltimbanco che esterna spettacolari poteri terapeutici e neppure un medico di affermata competenza. E' il Figlio di Dio, il Salvatore che anche in questi atti annuncia la novità del Regno e invita alla fede. Ma ciò che occorre considerare maggiormente è che Gesù, sebbene prenda le distanze dall'associare peccato e malessere fisico, non si risparmia nell'invitare chiunque guarisca ad astenersi dal peccato. "Va e non peccare più" (Gv 8, 11)diceva alla prostituta dopo aver superato un'altra situazione di pregiudizio sociale nei suoi confronti. All'uomo che ha appena guarito da un'annosa paralisi, esclama: "Ecco ora sei guarito! Va e non peccare più, perché non abbia a succederti qualcosa di peggio." (Gv 5, 14). A questo malcapitato lebbroso ora sanato Gesù infatti non risparmia la misericordia, ma neppure una certa severità di comportamento: lo rimanda via (letteralmente lo caccia) invitandolo a recarsi dal sacerdote ad adempiere tutte le prescrizioni previste per una persona finalmente guarita (Lv 14, 1 - 32). Dovrà infatti offrire delle vittime animali di uccelli. Al paralitico calato con un lettuccio dal tetto alla sua presenza dice per prima cosa: "Coraggio figlio i tuoi peccati ti sono perdonati"(Mt 9, 1 - 4). Mentre risana le infermità fisiche Gesù non omette insomma di invitare alla conversione e alla lotta contro il peccato o comunque alla fede indiscussa nel Figlio di Dio. Il peccatore è amato da Dio e oggetto di misericordia; qualsiasi mancanza un uomo abbia commesso, è sempre prezioso e unico agli occhi del Signore, il quale non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (Ez 33, 11); ciononostante il peccato è sempre nemico da combattere, offende Dio e rovina l'uomo stesso quindi va perseguitato e sconfitto. E in effetti è Gesù stesso che accorda il perdono dai peccato mentre elimina il malessere fisico perché la sua misericordia sia veramente profonda e arrivi a debellare ciò che veramente distrugge l'uomo in profondità.
Tutte le volte che soffriamo un disturbo fisico certamente non dobbiamo disperare, occorre farsi forza e confidare nell'amore e nella passione redentrice di Cristo che ci solleva e ci infonde fiducia e coraggio. Tuttavia occorrerebbe pure che in simili occasioni ci interroghiamo su eventuali mancanze da cui convertirci; se esistono cioè defezioni, colpe, manchevolezze, insomma situazioni di peccato che occorrerebbe estirpare, soprattutto quando esigiamo di essere guariti da un male, di ottenere un miracolo, una grazia speciale, senza considerare per niente di doverci convertire. Non è raro il caso in cui siamo soliti aspettarci favori divini particolari senza analizzare la nostra coscienza e senza affidare a Dio i nostri peccati anche approfittando del carattere espiativo della stessa infermità. San Francesco di Paola, uomo famoso per continui segni soprannaturali, diceva che "chi non ha fede non può aver neanche grazia" perché in effetti peccare è la malattia più grave e deprimente. Ma la misericordia di Dio supera anche quello.