Omelia (14-02-2021) |
diac. Vito Calella |
I con-tatti di Gesù e i nostri con-tatti responsabili La lebbra come malattia e il suo significato simbolico. Dall'antichità fino ad poco tempo fa, la malattia contagiosa della lebbra diventava una condanna per chi la contraeva. La prevenzione del contagio imponeva l'isolamento sociale degli infettati, costretti a vivere nei lebbrosari. Senza ospizi, conforme la legge del Levitico, il girovagare dei lebbrosi doveva essere accompagnato dal grido «Impuro! Impuro», ogni volta che si incrociasse qualcuno. I lebbrosi dovevano vivere da miserabili, indossare indumenti strappati, che potessero mostrare le piaghe, le macchie e le mutilazioni provocate dalla lebbra. Il morbo di Hansen, come malattia batterica che danneggia i nervi periferici, la pelle e le mucose delle vie aeree, è divenuta il simbolo dell'anticipazione della morte. Un cadavere provoca la decomposizione, così la lebbra provoca la deformazione di parti del corpo umano. I lebbrosi erano considerati dei "morti viventi", a causa dell'aspetto fisico deformato e per l'inferno dell'isolamento in cui erano costretti: «Il lebbroso sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento» (Lev 13,46). Oggi è superata la mentalità religiosa arcaica di associare la malattia al castigo divino dovuto ai peccati commessi, sia dal singolo ammalato che dai suoi antenati. Il libro di Giobbe segna questo superamento della cosiddetta teologica della retribuzione, presente anche nel popolo ebraico, secondo cui Dio benedice i giusti con la salute e la prosperità e castiga i peccatori con la malattia e la povertà. Liberati da questa immagine arcaica e non veritiera di Dio, rimane comunque il significato simbolico della lebbra, paragonabile all'esperienza divisiva e isolante dell'uomo che, a causa della sua coscienza e libertà, usate a difesa degli interessi del proprio "io", può provocare «impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (Mc 7,21b-22), determinando di fatto la angosciosa situazione di rottura di comunione e isolamento dagli altri. Se non siamo fisicamente "lebbrosi", lo possiamo essere psicologicamente e moralmente. La nostra lebbra può significare quella sensazione di irreversibilità di una situazione storta della nostra vita, della nostra personalità, di qualche vizio o nevrosi da cui non riusciamo a liberarci. Il salmo pregato riflette bene la situazione del peccatore che, prima di confessare i suoi peccati e riconoscesi radicalmente povero davanti a Dio, viveva in uno stato permanente di angoscia e isolamento. Le parole di Gesù hanno il potere di trasformare, liberare, purificare ogni situazione esistenziale di angoscia, dovuta sia ai tanti sensi di colpa, che condizionano lo stato d'animo e le relazioni, sia alla consapevolezza che ogni peccato commesso diventa un'esperienza di divisione, che rompe la comunione con gli altri, facendo sentire una sorta di lontananza dalla misericordia del Padre, dall'amicizia con Gesù e dalla consolazione dello Spirito santo, potendo gettare la persona nell'inferno dell'isolamento. La preghiera del salmo ci aiuta a guardare alla luce in fondo al tunnel di ogni esperienza angosciosa di isolamento: «Tu sei il mio rifugio, mi liberi dall'angoscia, mi circondi di canti di liberazione» (Sal 32,7). Se in ciascuno di noi c'è angoscia, se può essere balenata l'idea della lontananza divina dalla nostra esistenza individuale, contrassegnata dalla fatica di scegliere il bene, giorno dopo giorno, sappiamo che il Vangelo di oggi ci toglie questa idea malsana dalla testa. Immedesimandoci nel lebbroso, pensando al significato simbolico di "lebbra", vogliamo dire anche noi, con convinzione al Cristo risuscitato, vivo e presente in mezzo a noi: «Se vuoi, puoi purificarmi!» (Mc 1,40b), consapevoli che in Lui, risuscitato dalle tenebre della morte, c'è questa volontà di liberazione: «Lo voglio, sii purificato!» (Mc 1,41b). I con-tatti di Gesù. Le parole potenti di Gesù, che provocano la guarigione del lebbroso, sono precedute da tre atteggiamenti concreti e umani, che ricordano quelli del suo incontro con la suocera di Pietro. Oggi abbiamo ascoltato: «ebbe compassione, tese la mano, lo toccò» (Mc 1, 41a); domenica scorsa custodivamo nel cuore e nella mente le tre azioni: «si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano» (Mc 1,31a). I con-tatti di Gesù di Nazaret con gli ammalati gli facevano sperimentare l'essenziale della relazione di comunione. Le sue erano azioni concrete rivelative del suo sentirsi accompagnato, sorretto, abbracciato dall'immensa gratuità dell'amore del Padre, di cui lo Spirito santo, presente e agente in lui, era la garanzia di fedeltà del Padre unito a lui, suo Figlio, l'amato. Il con-tatto di Gesù con la suocera di Pietro e con il lebbroso ci rivela il suo "andare oltre" i limiti restrittivi degli stessi comandamenti della Legge mosaica, nonostante fossero parola di Dio. Gesù, con il gesto di "toccare" il lebbroso, trasgredì la Legge! Quel suo avere compassione, avvicinarsi, tendere la mano, prendere per mano, toccare, far alzare diventa per noi cristiani, oggi (illuminati dall'evento centrale della sua morte, sepoltura e risurrezione), il preannuncio del suo esserci vivo e vero, da risuscitato, nella carne dei poveri. Se Gesù è presente nell'affamato, nell'assetato, nel nudo, nello straniero migrante, nell'ammalato, nel carcerato, è in ciascuno di noi quando ci si riconosce davanti al Padre nella radicale povertà della propria condizione umana di persona vulnerabile e sofferente fisicamente, psicologicamente fragile, moralmente peccatrice. Gesù si è addossato le nostre malattie e iniquità quando morì di fatto sulla croce. Riconoscere la nostra povertà, la nostra fragilità e impotenza di fronte al male di una malattia, di un peccato, significa sentire che siamo già stati purificati, liberati dalla sua morte di croce. Quelle parole ascoltate oggi, uscite dalla bocca di Gesù, «Lo voglio, sii purificato», sono potenti ed efficaci per ciascuno di noi oggi perché Gesù ci ha già salvati tutti con la sua morte di croce e da risuscitato ora si fa presenza viva in chi soffre, anche in ciascuno di noi nella povertà della sua condizione umana. Sentirci con Gesù nella sua morte di croce e sentire la sua presenza in noi nella nostra condizione di povertà è già l'inizio della nostra liberazione, è già il primo passo della nostra conversione. I nostri con-tatti responsabili Il con-tatto di Gesù ci invita a vivere anche noi il con-tatto con chi soffre più di noi. La relazione di condivisione con i poveri, con gli ammalati, lo starci con chi carica un peso grande di sofferenza è un'altra esperienza potente di conversione e di liberazione, perché prima di ogni parola, l'avvicinarsi, il prendere per mano, il toccare, l'aiutare a rialzarsi, ci fa sperimentare l'essenziale della relazione di comunione, che è una forza di vita e di liberazione anche dalle nostre angosce e fragilità. San Paolo, nella seconda lettura ci dice: «Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). Pensiamo ai con-tatti di san Paolo con la gente delle sue comunità e sentiamoci anche noi "missione"! Pensiamo al con-tatto di san Francesco con il lebbroso, a quanto quell'incontro cambiò la sua esistenza! I santi imitarono i con-tatti di Gesù, noi imitiamo i santi che si sono convertiti alla missione e all'incontro con Gesù nella carne dei poveri. La guarigione del lebbroso del vangelo di oggi si conclude con un clima di tensione. Gesù, che prima aveva avuto sentimenti di compassione, aveva teso la mano e osato toccare il lebbroso, trasgredendo la legge di Mosè e facendoci contemplare la misericordia del Padre con i suoi gesti e con la potenza della sua parola guaritrice, improvvisamente assume un atteggiamento duro verso il lebbroso purificato: «Ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: "Guarda di non dire niente a nessuno; va', invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto"» (Mc 1, 43-44). Lo sgridare irato di Gesù, cacciando via il guarito, imponendogli severamente il silenzio e ordinando di andare a Gerusalemme, trasmettono severità, sbattendoci i faccia l'ira divina associata alla sua misericordia. Altrettanto deludente è la disobbedienza del lebbroso già purificato: non fa silenzio e non si sa se è andato dai sacerdoti a farsi vedere. La sua disobbedienza complica la missione di Gesù. L'ira divina associata alla misericordia è un appello alla responsabilità nell'esercizio della nostra libertà. Essere curati, perdonati, liberati per la potenza dell'azione divina non significa annullare la responsabilità umana della fedeltà ad una vita nuova nella dura quotidianità. L'essere cacciato non è un abbandono a se stessi, ma appello per scegliere responsabilmente il silenzio e la fedeltà alle regole che ci fanno essere popolo. L'imparare la fatica del silenzio è appello a entrare nella dinamica della gratuità, che non fa rumore e non cerca gloria. Il silenzio di parole fa risaltare quello dei con-tatti, dei piccoli gesti d'amore che fanno la santità della porta accanto e il rispetto delle regole del nostro convivio sociale aiuta ciascuno di noi ad essere responsabile di una tessitura di relazioni includente e non più escludente. |