Omelia (14-02-2021) |
don Alberto Brignoli |
Non è certo Dio che esclude... Non siamo certo stati noi a scoprire, in quest'ultimo anno, le malattie contagiose; né siamo stati noi i primi ad attuare forme di prevenzione del contagio attraverso l'isolamento o il distanziamento sociale. È sufficiente rileggere le parole della prima lettura di oggi, tratta dal libro del Levitico, per renderci conto che già 1300 anni prima di Cristo il popolo d'Israele aveva fissato delle norme per evitare che una malattia contagiosa (in questo caso la lebbra) potesse diffondersi in un accampamento nomade o in un villaggio con conseguenze che non solo posiamo immaginare, ma che ora conosciamo molto bene. Quello che, forse, nella situazione che stiamo vivendo da ormai un anno a questa parte, siamo riusciti a scoprire e a valorizzare rispetto al passato è il senso di profonda solidarietà che si è generato a causa della pandemia. È vero che c'è un senso di solitudine, di isolamento, di smarrimento che ci fa avvertire da una parte il bisogno di avere contatti con le persone, e dall'altra ancora un certo timore nello stare in compagnia degli altri o in presenza di molta gente; tuttavia, nessuno può negare che mai come in questo periodo si sono moltiplicati i tentativi, gli interventi, i progetti, le piccole e grandi azioni messe in campo nelle più disparate forme per fare in modo che nessuno si senta lasciato solo in questa situazione. Cosa, questa, diametralmente opposta a quanto ci viene narrato nel libro del Levitico e che vediamo anche nell'incontro che, nel Vangelo, Gesù ha con il lebbroso. Chi era colpito da questa o da altre malattie contagiose doveva, dopo un'accurata indagine fatta dalle autorità religiose, andare a vivere fuori dall'accampamento o dal villaggio senza mai potervi entrare, e se per qualsiasi motivo doveva muoversi e mettersi in strada, anche solo per mendicare, doveva gridare la propria condizione di salute, facendo sapere a tutti di cosa soffrisse (altro che privacy...). La violazione di questa normativa comportava l'eliminazione del soggetto per lapidazione, su disposizione dell'autorità religiosa; ed era sempre l'autorità religiosa a disporre, in caso di guarigione, il suo effettivo reintegro nella comunità attraverso pratiche e sacrifici rituali di purificazione. Questa attenzione concentrata sulla religione più che sulla medicina ci fa capire una cosa, molto ben radicata, allora, nella cultura e nella mentalità del popolo d'Israele: che, cioè, la malattia non era un fatto clinico, bensì spirituale, ed era il sintomo di un male interiore, il peccato, che Dio aveva voluto castigare nel soggetto reo di peccato, rendendo evidente a tutti la sua condizione di peccatore appunto attraverso la malattia. E quanto più la malattia era dolorosa, penosa e propensa a propagarsi ad altre persone, tanto più il peccato era stato grande, e non c'era altro modo per debellarlo se non allontanando il soggetto, almeno fino a quando Dio non avesse ritirato la sua mano e gli avesse restituito salute, salvezza dell'anima e dignità. Dio aveva rifiutato quella persona: e a essa non era consentito riavvicinarsi a Dio se non dopo che Dio l'avesse guarita, perché - questo è il concetto di fondo - a Dio non ci si può avvicinare senza previamente essersi purificati da ogni male, dal momento che Dio e il male sono tra di loro incompatibili. Allora, la vicenda del Vangelo di oggi, in cui Gesù guarisce un malato di lebbra, sconvolge e meraviglia non solo per il fatto che viene compiuto un vero e proprio miracolo dal punto di vista clinico, ma perché entrambi (Gesù e il lebbroso) compiono un gesto sconvolgente, inconcepibile per la mentalità di allora, e che soprattutto a Gesù procurerà problemi per l'immagine, l'idea di Dio che vuol far passare attraverso questo gesto. Il primo a compiere un gesto a dir poco "colpevole", secondo le leggi vigenti, fu proprio il lebbroso, che violando l'isolamento a cui era sottoposto per legge, va da Gesù e si getta in ginocchio davanti a lui: già questo era sufficiente a condannarlo a morte. Del resto, si tratta del gesto di un disperato che non ha nulla da perdere, e va da Gesù con la consapevolezza che nulla gli è dovuto, e che può anche essere da lui rifiutato (quel "Se vuoi" che mette davanti alla sua supplica è sintomatico di questo). Ma Gesù fa di più, va ben oltre: non solo dimostra di volere la sua guarigione, ma addirittura lo tocca, entra in contatto fisico con lui, cosa che per la legge di Mosè e per la mentalità corrente rendeva Gesù automaticamente contagiato, automaticamente da isolare dalla comunità (e non per niente Marco dirà, al termine del brano, che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città), e soprattutto automaticamente impuro, peccatore, lontano e disprezzato da Dio. Da quel Dio che, per sanare il lebbroso, egli fa emergere dai suoi gesti di pietà: "avere compassione" è il verbo che nella Bibbia viene usato per descrivere la misericordia di Dio verso il suo popolo; "tendere la mano" era l'azione privilegiata del Dio d'Israele, il Dio dell'Esodo, che stendeva la mano per colpire e annientare i suoi nemici. Qui il nemico da annientare non è il lebbroso, e nemmeno il peccato che la legge di Mosè imputava a quell'uomo come condizione interiore di ciò che la lebbra manifestava esteriormente. Il nemico peggiore, quello che Gesù vuole sconfiggere con questa purificazione, è l'immagine distorta e perversa di Dio che la mentalità corrente, creata e fomentata dalle autorità religiose, si era costruita, e sulla quale costruiva la società: un Dio che fa ammalare le persone perché castiga i loro peccati, un Dio dal quale si deve stare lontani se si è malati e peccatori, e al quale si può accedere solo dopo essersi purificati e santificati. Ma Dio e tutto ciò che lo riguarda - non mi stancherò mai di dirlo - non è un premio per chi si comporta bene nella vita e per chi fa il bravo seguendo le sue norme e le sue leggi in maniera integra, bensì un rimedio per chi fa fatica, una medicina per chi è malato nel corpo e nello spirito, un conforto per chi è oppresso da qualsiasi situazione drammatica della vita, sia da quelle subite che da quelle da lui stesso causate. Perché Dio non vuole essere servito da persone sante che accedono a lui pure e immacolate; il Dio di Gesù Cristo si mette a servizio di tutti coloro che da lui hanno bisogno di essere accolti e amati, anche e soprattutto perché impuri e peccatori. Pensiamoci su due volte, come Chiesa universale e come comunità cristiane particolari, prima di negare l'accesso alla vita di fede, ai sacramenti e a qualsiasi altra forma di vita all'interno della comunità, a persone che, a volte "in nome della legge e dei canoni", a volte per pura ignoranza, bolliamo come "escluse", "impure", "scomunicate", solo perché hanno sbagliato nella vita o la vita ha sbagliato su di loro. Perché a questo punto, davvero, tutti quanti dovremmo essere "esclusi" dalla Chiesa in quanto "impuri". Per fortuna abbiamo un Maestro che, pur di non lasciare fuori nessuno dalle braccia del suo amore, si fa "impuro", "escluso", "scomunicato" per la nostra salvezza... |