Omelia (28-02-2021)
fr. Massimo Rossi
Commento su Marco 9,2-10

Il sacrificio di Isacco, ovvero, storia di un olocausto mai nato. Non me ne voglia l'immortale Oriana Fallaci, se ho parafrasato il titolo di un suo famoso libro per avviare l'omelia di questa seconda domenica di Quaresima. Con la vicenda del sacrificio di Isacco, va in crisi, o, meglio, crolla un mito fondamentale per l'antropologia religiosa, del quale il sacrificio di Isacco è mito a sua volta: la convinzione ancestrale che l'uomo debba mettere a morte il suo bene più grande per conquistarsi il favore degli dei.
Nel caso di Abramo, parlare del bene più grande suona quasi riduttivo: si tratta dell'unico figlio, avuto fuori tempo massimo. Non basta: quel figlio rappresenta la promessa di vita che Dio gli aveva fatto. E se si potesse aggiungere ancora qualcosa sul piatto della bilancia, Isacco è - avrebbe dovuto essere - l'inizio di una posterità che non avrà fine... Ma questa promessa di posterità infinita, nasce già segnata dalla morte: una morte inattesa, almeno quanto inatteso era questo figlio. Abramo e Sara si erano rassegnati da tempo, dopo aver provato, e riprovato a concepire un figlio.
Con loro, il casato finiva, con i suoi sogni, i desideri irrealizzati, le speranze svanite.
Anche le nevi perenni di un ghiacciaio si possono sciogliere... e non rimane più niente.
Beh, rimaneva Dio! Ma, un conto è la fede in Dio, un altro la sicurezza di un figlio!
...A meno che Dio non decida di rispondere alla fede a fondo perduto di Abramo e Sara, donando quel figlio che non avevano avuto in gioventù e che ora non attendevano più...
Vedete, prima che il sacrificio interdetto, come lo chiama Marie Balmary, autrice dell'omonimo saggio su Freud e la Bibbia, a far andare in crisi la tesi, secondo la quale Dio interviene se noi gli offriamo qualcosa di importante - non le briciole del nostro superfluo! -, ci avevano già pensato i due anziani coniugi: nonostante il Cielo non avesse risposto alla domanda di un figlio, non perdettero la fede, continuarono a credere; e quando Dio volse lo sguardo verso di loro, loro erano pronti ad accoglierlo.
La fede è una pianta che bisogna coltivare senza mai perdersi d'animo.
Soltanto così (la fede) sarà forte abbastanza per venire in aiuto e sostenerci al momento della prova. Se invece l'avremo dimenticata, negli anni della prosperità, quando ne avremo veramente bisogno, non ce ne sarà, né per noi, né per nessuno.
Non si ama Dio affinché Lui provveda alle nostre necessità...
Si ama Dio per amore. Si ama perché si ama. Si ama e basta!
L'amore di Abramo per Dio era puro, del tutto libero da aspettative. Nella sua relazione con Dio non c'era spazio per il rancore. Quante storie conosciamo di uomini e donne che hanno smesso di credere, delusi e arrabbiati con Dio perché non aveva voluto rispondere alle loro preghiere...

Ma torniamo al sacrificio di Isacco: l'ho spiegato diverse volte, descrivendo le culture che il patriarca di tutte le fedi monoteiste, incontrò nel lungo viaggio da Ur dei Caldei - rive del Golfo Persico - a Canaan, l'attuale Palestina. Queste culture praticavano sacrifici umani: in particolare l'uccisione rituale dei primogeniti, seppelliti poi nelle fondamenta del Tempio, per consacrarlo.
Venendo a contatto con quelle pratiche religiose, anche Abramo potrebbe essere stato colto dal "miraggio", tanto suggestivo, quando assurdo e crudele, di immolare suo figlio, in nome della fede nel Dio della vita e della morte. Miraggio rivelatosi tale appena in tempo...
Personalmente non sono convinto che, per giustificare il sacrificio di Isacco, sia necessario ricorrere all'antropologia culturale di cui sopra.
Basta la fede di Abramo, una fede cieca, una fede incondizionata; fede diversa da quella di altri protagonisti della storia sacra, come Giobbe, come Giona,...

Il tempo a nostra disposizione è quasi terminato e non ho ancora fatto cenno al Vangelo: la pagina di Marco, cap.9, è quella straconosciuta della Trasfigurazione.
La vicenda si iscrive in una storia più ampia che va dalla nascita di Gesù nella carne alla ri-nascita di Gesù come il Cristo, la Domenica di Risurrezione.
Questo grande affresco chiamato Vangelo rappresenta la risposta di Dio alle nostre velleità di offrirgli qualcosa di talmente importante (per noi), da piegare la Sua volontà alla nostra...
I tre Apostoli che il Signore chiama per assistere alla sua trasformazione sentono la voce di Dio Padre, che comanda loro di ascoltare Lui, il suo amato Figlio. L'Evangelista sottolinea che Pietro, Giacomo e Giovanni erano rimasti senza parole, per la paura suscitata da quella scena...
Il principe degli Apostoli se ne esce con un commento tanto generico quanto infantile: "Bello! Stiamo ancora un po' qui!"... Mi fa pensare all'insistenza dei bambini, quando la mamma li chiama per tornare a casa: "Ancora cinque minuti!!"...
Purtroppo non si può restare sul monte un minuto di più. Non solo, ma Gesù proibisce ai tre di parlare con gli altri di ciò che hanno visto e sentito, fino a quando il loro Maestro non sia risuscitato dai morti. Naturalmente non capirono che cosa volesse dire l'espressione: "risuscitare dai morti".
E non capiranno neppure quando, la Domenica di Pasqua, le donne riferiscono che il sepolcro è vuoto. La loro incredulità resiste anche alla dichiarazione di Maddalena, che giura di aver addirittura parlato con Gesù il primo giorno dopo il sabato. Neppure i due discepoli di Emmaus riescono a far breccia nel cuore degli apostoli, raccontando di aver incontrato il Risorto e di averlo riconosciuto nell'atto di spezzare il pane.
"Alla fine - leggo testualmente - (Gesù) apparve agli Undici, mentre stavano a tavola, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato." (16,14).
E con questo enigma della risurrezione, di cui è simbolo la trasfigurazione, vi do appuntamento a domenica prossima, terza di Quaresima. Rifletteremo sull'episodio della cacciata dei mercanti dal Tempio, una realtà che, voi intuite, non interessa soltanto il cuore della religione ebraica di 2000 anni fa...