Omelia (28-02-2021) |
diac. Vito Calella |
Veste-nube-voce: il “già-non ancora” di Dio nella nostra vita «Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche» (Mc 9, 2b-3), «Venne nube che li coprì con la sua ombra» (Mc 9,7a), «Dalla nube uscì una voce» (Mc 9,7b): tre segni forti si susseguono: il biancore fantastico delle vesti di Gesù fa contrasto con l'ombra della nube; dalla nube esce il segno della voce, la cui frase è rivolta a Pietro, Giacomo, Giovanni e a ciascuno di noi: «Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!» (Mc 9, 7c). La veste splendida e il colloquio con Elia e Mosé rivelano il "già dato" della vita divina in noi. Marco, rispetto a Matteo (Mt 17,2) e Luca (Lc 9,29), non parla del «volto» trasfigurato di Gesù, ma dello splendore delle «vesti». Nel linguaggio biblico la «veste» rivela l'identità di chi la indossa. Lo splendore e il biancore assoluto delle vesti è dunque una chiara rivelazione dell'identità divina dell'uomo Gesù. I tre discepoli «Pietro, Giacomo e Giovanni» (Mc 9,2b) assistono all'apparire improvviso di due figure che si mettono in dialogo con Gesù, già vestito di splendore: «E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4). Dal racconto dell'evangelista Marco non conosciamo il contenuto della conversazione tra Gesù, Elia e Mosè. L'evangelista Luca riempie questa apparente lacuna di Marco comunicandoci che «parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme» (Lc 9,31). Di fronte a questa visione prevalgono due esperienze: l'incomprensione e lo spavento, perché umanamente è impossibile catturare il mistero della rivelazione di Dio nella nostra vita; c'è sempre un "di più" che ci stupisce e ci spaventa. Per questo: «[Pietro] non sapeva che cosa dire, perché erano spaventati» (Mc 9,6). L'attenzione è posta soprattutto su Elia, nominato per primo, anche se cronologicamente viene dopo Mosè. Si costuma dire che Mosè ed Elia rappresentano tutto l'Antico Testamento, riassunto nella Legge (Mosè) e nei Profeti (Elia). Ma l'aver nominato per prima Elia fa pensare ad un'altra interpretazione. La tradizione biblica attesta che il profeta Elia fu rapito in cielo prima della sua morte (2Re 2,11). Nella tradizione ebraica si diceva che Elia sarebbe riapparso sulla terra prima della realizzazione del «giorno del Signore», in cui sarebbe avvenuta «la conversione del padre verso i figli» (cf. Ml 3,23-24; Sir 48,9-10). La Sacra Scrittura attesta la morte di Mosè nella valle di Moab (cf. Dt 34,5), ma stranamente «nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba» (Dt 34,6b). Il particolare dell'assenza della tomba, su cui venerare le spoglie mortali di Mosè, aveva dato origine a racconti extrabiblici che narravano l'assunzione di Mosè al cielo. Con Pietro, Giacomo e Giovanni, stupiti e spaventati, contempliamo la natura divina di Gesù in quelle vesti binachissime; in Elia e Mosè contempliamo la nostra partecipazione alla vita divina. L'anticipazione della gloria della risurrezione, con la trasfigurazione di Gesù sul monte, comunica il dono gratuito della nostra partecipazione alla natura divina, grazie al dono dello Spirito santo "già dato", già presente in noi, "già" effuso nei nostri cuori. Cioè: siamo umani, siamo limitati dalla nostra condizione mortale, siamo fragili e vulnerabili nel corpo, nella psiche e nella vita spirituale; ma, nonostante questa nostra povertà radicale, abbiamo il dono gratuito della vita divina e immortale che "già" abita in noi, "già" abita nella vera tenda del nostro corpo mortale; persevera fedelmente, per volontà del Padre, nella vera tenda delle nostre fatiche a comprendere e delle nostre paure; attende pazientemente la nostra scelta di affidarci a lei, luce e forza divina presente in noi. Che bisogno c'era di costruire fisicamente tre tende sul monte per ospitare Gesù (splendente di luce nelle sue vesti), Elia e Mosè (tradizionalmente considerati immortali e inseriti in un contesto di partecipazione alla vita divina)? La partecipazione alla vita divina e immortale ci è "già" stata data gratuitamente e non dipende dalla nostra iniziativa umana! Ma Pietro non poteva ancora comprendere che lui, con il suo corpo, era il tempio dello Spirito santo. Non poteva ancora sapere che "già" ospitava dentro di sé il dono divino della gratuità dell'amore, che è la forza vitale e immortale della comunione con il Padre, grazie al suo rabbì. Doveva attendere l'evento del risuscitamento eterno di Gesù con il suo corpo deposto nel sepolcro, segnato dalla passione e dai chiodi della crocifissione. La nube rivela l'«Io ci sono» divino nella storia umana collettiva/personale e nella natura. Viene improvvisamente una nube che avvolge tutti i personaggi: Pietro, Giacomo, Giovanni, Gesù rivestito di vesti splendenti, Elia e Mosè, immortali, in dialogo con Gesù. Una nube avvolge tutti noi, immedesimati nei tre discepoli sul monte. È la nube della storia dell'umanità e di tutte le creature che compongono l'immensità della natura di cui siamo una parte in questo immenso "tutto". Nel nostro tempo di globalizzazione della comunicazione, possiamo stare un po' dappertutto, sollecitiamo il nostro udito all'ascolto di una quantità innumerevole di informazioni e di suoni. Il nostro cervello è riempito di dati al punto tale che siamo anche disorientati, come quando si vaga nella nebbia. La nube biblica è questa storia dell'umanità ed è anche la storia personale di ciascuno, ma è una storia abitata dal Padre unito al Figlio nello Spirito santo. La Trinità agisce nella storia in rispettoso dialogo di amicizia con la nostra libertà. È la nube misteriosa dell'esserci del Padre in tutte le fasi della storia del popolo di Israele e della chiesa popolo di Dio, nella storia dell'umanità e in tutte le fasi esistenziali della storia personale di ciascuno di noi, sia nelle situazioni di schiavitù e di esilio, sia in quelle di liberazione e di nuovo inizio. È l'«Io ci sono» del Padre che si rivela per mezzo del Figlio redentore, spinto e sostenuto dallo Spirito santo santificatore, incarnato nella storia con tutte le sue contraddizioni. La nube evoca il "non ancora", rispetto al "già" della vita divina in noi: non siamo ancora pienamente consapevoli dell'«esserci» del Padre unito al Figlio nello Spirito santo nelle vicende ingarbugliate della complessa storia umana e della nostra esistenza, in cui sembra che si possa "bastare a se stessi" senza l'ipotesi "Dio". La voce rivela l'ascolto essenziale da custodire: l'evento della morte e risurrezione di Gesù. Fra tante informazioni, notizie, fatti, preoccupazioni, proposte, inviti, spinte a comprare questo e quello, pensieri, opinioni degli altri, favorevoli e contrarie alle nostre, stimoli, desideri, c'è anche la voce del Padre da accogliere e ospitare. Da questa nube della storia umana e nostra, emerge una voce della paternità divina rivelata per mezzo del Figlio, venuto in mezzo a noi come «Verbo fatto carne» (Gv 1,14), cioè come Parola definitiva che ci apre all'esperienza della comunione con il Padre, al nostro scoprire, gioire e vivere l'avventura di essere anche noi suoi figli amati, per Cristo, con Cristo e in Cristo risuscitato. Due differenze sono evidenti nella frase della voce, rispetto a quella simile, detta dal Padre nel giorno del battesimo di Gesù al Giordano: nel giorno del battesimo il Padre si rivolgeva in prima persona a Gesù: «Tu sei il mio Figlio, l'amato» (Mc 1,11a), oggi, nel racconto della trasfigurazione, si rivolge ai discepoli e a tutti noi: «Questi è il mio Figlio, l'amato» (Mc 9, 7c); nel giorno del battesimo Gesù veniva identificato con il servo di JHWH annunciato dal profeta Isaia: «In te ho posto il mio compiacimento» (Mc 1,11b = Is 42,1), mentre ora si rivolge ai discepoli e a tutti noi con un invito imperativo: «Ascoltatelo» (Mc 9,7d). Cosa c'è da ospitare di così essenziale, mettendoci in ascolto del Figlio amato? L'essenziale da ascoltare, da custodire in noi, è voce dell'annuncio pasquale, è la buona notizia del regno del Padre: «Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, [...] Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8, 31.34). Se centralizziamo la nostra esistenza nel fulcro centrale della morte e risurrezione del Figlio di Dio, impareremo a «camminare alla presenza del Signore in questa terra dei viventi», e non ci sentiremo più i soli protagonisti di questo nostro duro vivere, ma saremo già, qui ed ora, gioiosamente consegnati all'iniziativa divina con tutta la responsabilità della nostra iniziativa umana. |