I panni lavati dall'Altissimo
Ci sono cose che gli esseri umani si sono convinti di dovere e potere fare soltanto loro.
Fra queste, certamente il lavare i panni. A forza di convincersene, gli uomini e le donne pensano persino che queste cose, di loro esclusiva competenza, le fanno meglio di Dio. E invece l'episodio della trasfigurazione di Gesù sul monte ci dice che il Padre sa prendersi cura del Figlio lavandogli anche le vesti, rendendole così bianche che "nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche" (v. 3).
Lo stesso brano mostra Pietro, primo fra i discepoli e custode dei segreti di Gesù, indaffarato a preparare la festa per il Maestro e i suoi invitati, Elia e Mosè.
La costruzione delle capanne rimanda alla celebrazione della memoria dell'esodo.
Il Padre mette in chiaro le cose anche qui, e con la nube che scende ad avvolgere i presenti mostra chiaramente come sia sua competenza primaria dare protezione e rifugio, alla stregua di una casa che avvolge i suoi inquilini. D'altro canto, facendo memoria, ci si accorge che anche le feste le ha inventate Dio (cfr. Gen 1,14), come ci racconta il libro della Genesi, e che l'arte del festeggiare è addirittura un comando che viene dall'Alto (cfr. Es 28, 14; Nm 9,2-3).
Insomma, pur nelle cose in cui riusciamo tanto bene, appena corriamo il rischio di presumere di esserne i proprietari e unici fautori, e per di più come atto di merito davanti all'Altissimo, il brano della Trasfigurazione ci ricorda che sarebbe utile volgere lo sguardo (e il ricordo) al Signore stesso. La Sua Gloria viene dal Cielo, e si manifesta nell'uomo che vive del dono ricevuto, piuttosto che nei successi - piccoli o grandi che siano - delle nostre povere azioni religiose.
Nell'evento della Trasfigurazione tutta la Trinità si mette in gioco, e sembra voler dire ai discepoli e a noi di non preoccuparci: tutto è dono che viene dall'Alto, e Dio in persona si prende cura di noi. Il che non significa sminuire l'importanza del nostro impegno e la possibilità di esprimere la nostra dignità anche nel lavoro (...la lavanderia o altro!) e negli affetti (...che fanno casa!). Ci riconduce però all'origine, alla fonte, per non smarrire il senso del nostro vivere e agire. Tutto, ci viene ricordato, sgorga da Dio, anzi dal Padre. Tutto passa attraverso il Figlio, per farci fratelli
E qui in fondo sta l'unica vera esigenza, l'imperativo che diventa comandamento.
Ai suoi, e a noi con loro, è chiesto solamente e perentoriamente di ascoltare il Figlio, perché il Figlio è "l'amato" e nell'amato possiamo scoprirci amati anche noi.
Per questo, alla fine dell'incontro trasfigurante, anche Mosè ed Elia lasciano libero il campo, e rimane "Gesù solo, con loro" (v. 8). La via per raggiungere la cima del vero monte di Dio non è la faticosa salita delle virtù o dei talenti autoreferenziali, bensì la fiduciosa relazione di obbedienza con il Figlio, che è accesso all'intimità del Padre. La trasformazione del cuore, significata dal cambiamento delle vesti di Gesù, del quale anche noi siamo invitati a rivestirci (cfr. Gal 3, 27), è questione soprattutto di una grazia da accogliere, perché ci plasmi e ci assimili al Signore.
E il luogo privilegiato per sperimentare questo dono è la vita a valle.
Tornare giù, custodendo l'esperienza di una novità da cui lasciarsi avvolgere come dalla nube, piuttosto che pretendere di possederla, è percorso ineludibile e in fondo buona notizia. A ciascuno, nella propria condizione e secondo il proprio stato di vita, Gesù propone di riscoprirsi figlio e figlia amato, contagiato dall'amore che da lui trabocca. Egli, il carpentiere di Nazareth, amico e fratello veramente uomo, diviene il punto fermo... sempre in cammino, a fianco nostro, nella vita ordinaria, per gustare nell'accoglienza la grazia di essere trasformati in Lui con la nostra imprescindibile povertà.