Omelia (14-03-2021) |
mons. Roberto Brunelli |
Da noi non occorre essere eroi Due interlocutori, seduti sotto un argenteo ulivo a parlare di cose profonde, alla luce della luna che filtra tra i rami: così possiamo immaginare il contesto del vangelo odierno (Giovanni 3,14-21). Uno dei due è Gesù, in dialogo con un uomo che ha chiesto di incontrarlo privatamente. L'evangelista non riferisce dove sia avvenuto l'incontro: ma è verosimile pensarlo nel luogo dove Gesù deve aver trascorso spesso la notte quand'era a Gerusalemme: quell'uliveto (il getsèmani, che siamo soliti chiamare "orto degli ulivi") dove in seguito, proprio di notte, fu arrestato. Il visitatore notturno era Nicodemo, uno degli uomini più in vista della città, un componente del sinedrio, il supremo organo di autogoverno degli ebrei di allora: quel consesso ostile a Gesù al punto che in seguito lo fece arrestare, lo processò e lo condannò a morte. Condanna, come si sa, eseguita da Ponzio Pilato, il rappresentante dell'Impero romano che allora occupava la Palestina. Tornando a Nicodemo, egli aveva sentito parlare di quel giovane "rabbi" che diceva e faceva cose straordinarie e, nella sua onestà, prima di rifiutarle ritenne di doverle vagliare di persona; senza tuttavia compromettersi davanti ai colleghi: per questo chiese di incontrarlo in segreto, di notte. In quella situazione viene del tutto naturale parlare del contrasto tra luce e tenebre, e nel brano citato Gesù se ne avvale per spiegare la propria presenza nel mondo e l'opera che è venuto a compiere. Comincia con un richiamo alla storia del popolo d'Israele, a un episodio del viaggio nel deserto verso la terra promessa (Numeri 21,6-9): assaliti da serpenti velenosi, gli ebrei poterono salvarsi guardando con fede a un serpente di rame che per ordine divino Mosè aveva innalzato su un'asta. "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto" dice Gesù, parlando di sé in terza persona, "così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo". Preannuncia in questo modo la propria crocifissione, e subito dopo ne dà il motivo: "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna". Sa bene però che non tutti crederanno, ed appunto per spiegare questo "mistero" si avvale del contrasto accennato: "La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio". Il resoconto del colloquio notturno non dice quale fu la reazione di Nicodemo; sappiamo però che, se non subito certo più avanti, magari dopo avere riflettuto, egli credette: cercò di difendere Gesù davanti al sinedrio (Giovanni 7,50-52) e al momento della sua deposizione dalla croce arrivò con trenta chili della mistura di mirra e àloe che secondo l'usanza serviva a preparare i cadaveri per la sepoltura (19,39-40). E tuttavia il suo nome è rimasto nella storia per designare l'atteggiamento (lo si indicava un tempo col termine "nicodemismo") di quanti si mantengono amici di Gesù di nascosto, per timore del giudizio altrui. Anche oggi non manca chi intimamente crede, ma, cedendo alle tante pressioni sociali dissonanti rispetto al Vangelo, non osa manifestare la propria identità. Crede, ma per non compromettersi preferisce "andare da Gesù di notte". Ci sono però anche tanti che non nascondono la loro fede, pur se il farlo li mette in pericolo, talora della vita stessa. Fa riflettere, a questo proposito, la Giornata (che ricorre il prossimo giorno 24, anniversario del sacrificio del vescovo di San Salvador, Arnulfo Romero, ucciso nel 1980 mentre celebrava la Messa) dedicata alla preghiera per i cristiani martiri. In proposito le cronache abbondano: tuttora in tanti, troppi paesi chi si professa cristiano è oggetto di persecuzioni. Non possiamo non rilevare come, a differenza di tanti fratelli di fede, noi viviamo in un Paese libero, dove per essere coerenti non occorre essere eroi. |