Omelia (14-03-2021) |
diac. Vito Calella |
Dio c'è, e basta Conversione è rinascere di nuovo dopo un periodo difficile L'ascolto della parola di Dio dal secondo libro delle Cronache ci insegna che la storia personale e quella di un popolo, anche se è stata segnata da esperienze drammatiche di sofferenza e da dure prove, può diventare un «nascere di nuovo» (Gv 3,3). Una volta compiuta una azione o terminato un evento storico (l'aver attraversato un lutto, l'essere usciti da una guerra o da una pandemia), ci si ferma a riflettere sul vissuto e sull'accaduto e si scopre che un'esperienza dolorosa, una crisi, un evento disastroso possono divenire un'opportunità di rinascita, un'esperienza di conversione, di rinnovamento. Lo scrittore sacro, ispirato dallo Spirito Santo, ripercorre la storia del suo popolo, Israele. Custodisce nella memoria la drammatica storia della distruzione di Gerusalemme da parte dei babilonesi, la deportazione dei sopravvissuti a quella guerra, l'esilio durato settant'anni, come aveva preannunciato il profeta Geremia; e infine l'improvvisa fine di quel periodo difficile, grazie all'editto di Ciro, re di Persia, che concesse ai deportati la possibilità di ritornare in patria. Il difficile tempo dell'esilio babilonese fu un periodo fecondo per progredire nella fede in Dio, unico creatore e redentore del popolo e il ritorno dall'esilio fu un nuovo inizio. Dal racconto del vangelo di Giovanni oggi veniamo a sapere che la storia precedente del cammino del popolo di Israele verso la terra promessa, al tempo dell'esodo, custodisce il ricordo drammatico dei serpenti velenosi del deserto che uccisero molti israeliti (cf. Nm 21,4-9). Un serpente di bronzo innalzato da Mosè su un'asta di legno, su ordine di Dio, divenne causa di salvezza per il resto del popolo. Quell'innalzamento del serpente, simbolo biblico del male, del demonio, di tutte le forze che si oppongono a chi vuole agire gratuitamente secondo la volontà di Dio, diventa ricordo dell'innalzamento della croce sulla quale fu inchiodato il Figlio dell'uomo, Figlio del Padre nella "carne" della sua umanità: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15). Più avanti Gesù dirà: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me"» (Gv 12,32). L'evangelista commenta: «Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,33). L'ardito accostamento tra il corpo crocifisso di Gesù e il serpente rimanda alle forti parole dell'apostolo Paolo: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21). Diventare «giustizia di Dio» significa rimanere stupiti di fronte alla gratuità del dono dell'amore misericordioso del Padre, che Gesù ci ha rivelato quando morì sulla croce per tutti noi e per la nostra salvezza. Lo possiamo contemplare con le parole dell'apostolo Paolo ascoltate oggi: «Dio, ricco di misericordia, per il suo grande amore, con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia siamo stati salvati!» (Ef 2,5). È difficile digerire nella vita l'esperienza dell'espiazione, cioè di sentire la forza negativa e divisiva dell'egoismo degli altri riversarsi sulla nostra esistenza, per cui ci sembra di soccombere di fronte alle scelte egoistiche dell'altro, soprattutto quando è della nostra stessa famiglia o della nostra comunità di appartenenza. Ma anche ciascuno di noi, con il limite della sua condizione di peccatore può arrecare danno agli altri. Siamo così tutti coinvolti nel poter essere al tempo stesso vittime e carnefici, subenti il male e provocanti il male. È l'esperienza che si paga a causa della nostra libertà, per cui ogni azione fatta, buona o cattiva, rimane fissata nel passato, senza poter essere modificata, e incide il futuro, perché ne paghiamo le conseguenze sulla qualità delle nostre relazioni. Il male c'è e ce lo portiamo addosso. Anche Gesù ne ha fatto tutta l'esperienza negativa nell'ora della sua crocifissione. Le doglie di un parto, vissute da una donna per generare una nuova vita custodita nell'utero materno, possono diventare un'immagine simbolica della fatica di attraversare situazioni difficili della nostra vita. I dolori delle doglie, che precedono la nuova nascita, possono diventare esperienza simbolica dell'ira di Dio, ascoltata oggi nel resoconto storico della storia del popolo di Israele. Contemplare l'ira di Dio significa avere la consapevolezza che credere in Lui non significa essere risparmiati dall'esperienza del male, sia di quello contro di noi, sia di quello da noi arrecato agli altri. Il Padre creatore rispetta la nostra autonomia e ci lascia sperimentare le conseguenze positive e negative delle nostre scelte. La sua ira corrisponde al suo rispettare le conseguenze delle nostre azioni fatte confidando esclusivamente in noi stessi, diventando azioni che spesso ci condannano ad una vita infelice e schiavizzata. Ma la svolta incredibile viene quando ci rendiamo conto che anche nell'esperienza dolorosa del male subito o provocato, il Padre unito al Figlio nello Spirito Santo non ci abbandona: «C'è Dio, e basta!». Il suo amore misericordioso e la fedeltà eterna della sua paternità e amicizia eccedono immensamente rispetto al dramma del dolore e della sofferenza che ci coinvolge tutti come le doglie di un parto. Il suo amore misericordioso, nel linguaggio biblico, viene espresso con il rimando alle viscere, che corrispondono in realtà all'utero materno. Il dolore lancinante della nascita è compensato dalla bellezza protettiva e rassicurante dell'utero materno, che diventa immagine simbolica dell'«Io ci sono» del Padre unito al Figlio nello Spirito Santo in tutte le fasi della vita, soprattutto in quelle più difficili. Credere diventa allora esperienza della consegna all'iniziativa divina misericordiosa, che già abbraccia la nostra esistenza e la storia dell'umanità intera perché «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). L'esperienza della condanna L'esperienza della condanna è l'infelicità di sentirci schiacciati dalle forze divisive dell'egoismo umano che si riversano contro di noi e dalle nostre schiavitù, dai nostri limiti, dai nostri peccati, perché la radice del male risiede in ciascuno di noi. Sentirci condannati significa scegliere di voler cavarcela da soli, voler bastare a noi stessi, lottare confidando unicamente nella nostra intelligenza e nelle nostra personale visione della realtà per dare un senso alla nostra esistenza e a ciò che ci capita intorno. Ma la vita diventa un inferno, senza comunione, volendo bastare solo a noi stessi! L'esperienza del «credere» Credere invece significa decentrare lo sguardo da noi stessi per concentrarlo unicamente in Gesù, il Verbo di Dio fatto carne, rimanendo attratti e continuamente stupiti di fronte alla luce di verità che proviene dall'evento centrale della sua morte di croce e della sua risurrezione. «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17). Siamo già salvati grazie alla sua morte e risurrezione, evento culminante della «luce venuta nel mondo», che è il mistero della sua incarnazione. Credere significa «fare la verità» (Gv 3,21a). Facciamo tante cose nella giornata quotidiana, ma il "fare" principale di chi sceglie di "credere in Gesù" è "fare l'incontro orante con la parola di Dio": ascoltarla, meditarla, custodirla nel cuore e nella mente", perché solo questo «fare la verità» ci orienta a interpretare ogni nostra azione alla luce della morte e risurrezione di Gesù. L'esempio ci viene dall'apostolo Paolo, che ci parla della vita presente trasfigurata dall'evento della morte e risurrezione di Gesù: da «morti per il peccato» (Ef 2,4) possiamo già, qui ed ora, sentirci risuscitati, assaggiare quella pienezza di vita di comunione espressa nel linguaggio paolino del «sederci nei cieli, in Cristo Gesù» (Ef 2,5). Credere significa stare a contemplare il «nome dell'unigenito Figlio di Dio» (Gv 3,19). Sostare sul nome del Figlio di Dio è renderci consapevoli che il nome della Santissima Trinità è l'esserci del Padre unito al Figlio nello Spirito Santo nella nostra esistenza. Dio è JHWH, l'«Io ci cono». Credere diventa allora procedere nella vita coscienti che «Dio c'è, e basta». Credere diventa esperienza della resa, dell'abbandono, come quello vissuto da Gesù consegnato al Padre nell'ora più drammatica della sua morte di croce. Allora, continuando a metterci tutta la nostra parte di responsabilità, ma da credenti, agiremo da «creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (Gv 3,20). Agiremo solo per tutti quei valori che ci fanno stare uniti nella carità e in comunione di rispetto con tutte le bellezze della natura. Custodi della Parola, diventeremo luce alla Luce di Cristo morto, sepolto e risuscitato. Saremo santi perché le nostre azioni saranno «fatte in Dio» (Gv 3,21). |