Omelia (14-03-2021)
Michele Antonio Corona
La luce di Gesù attraverso il linguaggio dell'amore

Nelle tre domeniche di Quaresima il vangelo ci ha indicato luoghi precisi: il deserto, il monte, il tempio. In essi Gesù ha compiuto passi importanti della sua missione, della catechesi ai discepoli, della manifestazione della sua relazione intima e profonda col Padre. Senza questo, tutto sarebbe stato solo un mero esercizio di pietà. Quindi alla base di tutta la missione di Gesù sta il rapporto filiale con Dio.

In questa pagina di Giovanni - tagliata della prima parte nella lettura liturgica - viene indicato un tempo e non più uno spazio: di notte. È l'annotazione importante che viene fatta sul modo di avvicinarsi a Gesù da parte di Nicodemo. E con lui di tutti coloro che al tempo di Gesù e in ogni tempo sono incuriositi dalla figura del Maestro, ma per tante ragioni non vogliono mostrare questo interesse. Non si tratta di paura, di vergogna, di mancanza di coraggio; piuttosto è la situazione di chi comprende di avere davanti qualcosa di grande e si sente inadeguato, impacciato, fuori luogo. È, in altre parole, l'esperienza del pio ebreo, che anela il volto di Dio ma lo teme, che desidera seguire il Signore ma conosce l'austerità della sua Parola.

Questa pagina ci interroga su quanto diamo per scontata, banalizzandola, la dimensione esigente della Parola di Gesù; ci interpella sulla profonda coscienza che la venuta del Figlio di Dio è motivata dalla salvezza totale, aperta, offerta e non da giustizialismi beceri. Ma proprio in quella notte - che non va psicologizzata, ma considerata come uno stadio di vita di chi si accosta a Gesù - si evince la luce, si può intravvedere il bagliore di un chiarore che non giunge per il merito di osservare scrupolosamente la Legge, ma per dono gratuito e immotivato.


Così la lettera agli Efesini sottolinea senza giri di parole il mistero della gratuita iniziativa di Dio per l'umanità e a favore dell'umanità. Dio dona il Figlio e lo dona per salvare, per redimere, per giustificare.


La prima lettura - ultimissima pagina della Bibbia ebraica - prospetta un fatto straordinario: sulle labbra del pagano re Ciro è posta la parola definitiva di salvezza. Ciò che sembrava proprietà di Israele, passa invece attraverso la storia intricata e inattesa dell'esilio e del sovrano persiano. Più che una cronaca è, ancora una volta, una rivisitazione della storia a partire dalla fede.

Questo deve fare anche Nicodemo, mostrando la sua vera magistralità. A quella notte profonda, in cui Nicodemo si reca dal Maestro che viene da Dio, si presenta la luce che rischiara le tenebre che cercano di soffocarla.

Eppure, dobbiamo stare attenti a non considerarla una pagina evangelica rivolta a chi è lontano, a chi palesemente vi ve di notte, a chi ha bisogno di luce, escludendo noi stessi. La vita dei dodici, delle prime comunità e dei santi ci rivelano quanti accompagnano coloro che cammino verso Dio e quante volte aridità e solitudine costellano la vita dei più vicini, di quelli davvero vicini.

Madre Teresa di Calcutta confidò a una sua consorella: Accade spesso a coloro che trascorrono il proprio tempo a dare luce agli altri di rimanere loro stessi nel buio.