Omelia (14-03-2021)
padre Antonio Rungi
Convertirsi alla gioia e alla vita

La quarta domenica di quaresima è classificata come la domenica della letizia. E in questo giorno, ma sempre, con il sostegno della parola di Dio siamo invitati a sperimentare la vera letizia e la vera gioia di vivere per Cristo.

Il brano del Vangelo di Giovanni ci introduce al mistero della sofferenza di Cristo e alla sua passione e morte in croce. Il riferimento iniziale al serpente che Mosè innalzò nel deserto, con il quale gesto Israele veniva liberata; è prefigurazione della croce di Cristo, sulla quale Gesù verrà conficcato e poi innalzato da terra.

L'evangelista Giovanni si rifà proprio a questo momento in cui Gesù viene innalzato, chiamato qui il Figlio dell'uomo e mediante questa elevazione, chiunque crede in lui ha la vita eterna. La fede pasquale, la fede nella morte e risurrezione di Cristo, motiva l'essere stesso del cristiano. Coloro che si immergono nel mistero della redenzione comprendono che Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.

La missione di Cristo è finalizzata alla redenzione e alla salvezza dell'umanità e San Giovanni incentrata la sua riflessione sulla persona di Cristo proprio sul tema dell'amore redentivo, al punto tale che Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.

Gesù salvatore è colui che è innalzato sulla croce e da questo trono regale, anche se umiliante, sprigiona la forza dell'amore e della salvezza per tutti gli uomini. Tale salvezza passa attraverso l'adesione alla sua persona, che in termini molto semplici significa avere fede in Lui. Infatti chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio.

Credere in Cristo non è un semplice professione di fede pronunciata con le labbra, ma un vivere di Lui, in Lui e per Lui. Cristo deve essere la luce che rischiara le tenebre dell'errore e del male per diradarle e fare spazio alla verità e al bene.

Come è possibile tutto questo? E' possibile nella misura in cui ci sia confronta con la Luce che è Cristo e ci si lascia illuminare dalla sua parola e dalla sua vita. Ma sappiamo che pure che la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Il rifiuto di Cristo porta alla malvagità, porta a vivere per sempre nel peccato e nella immoralità "Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate".

In altri termini chi vive in peccato, lontano dalla grazia di Dio, invece di cambiare vita, persiste nel suo operare peccaminoso e malvagio e non si converte mai. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio. D'altra parte le cose appaiano vere ai nostri occhi non nella notte e non nella luce artificiale che altera il colore e la visione, ma quando brilla il sole in pieno giorno. Tutto diventa chiaro e visibile da tutti e le stesse opere buone risplendono nel loro fulgore in quanto visibili e verificabili. La notte è sempre espressione di tenebre e di buio non solo fisico ma spirituale ed interiore. Dalla notte bisogna uscire per arrivare in pieno giorno ed agire alla luce del sole, quella luce che fa valutare con esattezza e precisione non solo la natura, ma le creature e in primo luogo la più alta delle creature che è l'essere umano, creato ad immagine e somiglianza del Creatore.

La gioia di appartenere a Cristo deve sprigionarsi in tutti i gesti della nostra vita, anche in questo tempo di sofferenza e pandemia che ha tolto dal nostro volto il sorriso esteriore, ma mi auguro non quello interiore, quello che attinge il suo valore con la comunione con il Creatore e il Salvatore.

Riscopriamo la bellezza della gioia nella vita di tutti i giorni, anche quando la croce si alza nei nostri cammini quotidiani fatti di tanti ostacoli e sofferenze, molte volte indicibili e non percettibili agli occhi di chi ci sta vicino o lontano, ma non è sintonizzato sui nostri stessi parametri esistenziali e religiosi.


La gioia del ritorno in patria l'ha sperimentata Israele, dopo 400 anni di esilio, in Egitto, ritornando nella Terra promessa. Altre volte il popolo eletto ha dovuto sperimentale la lontananza dalla patria, ovvero l'esilio, e proprio dopo varie traversie ritornare in quella Terra promessa da Dio e raggiunta sempre con il suo aiuto. Di questo dramma ripetuto per Israele ci racconta la prima lettura di questa domenica, tratta dal libro delle Cronache, nel quale si legge che "tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme". La dissacrazione totale e la contaminazione del luogo santo scatenò l'ira di Dio, in quanto il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l'ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio".

La conseguenza fu terribile per Israele, in quanto [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi". Inizia così il tempo della deportazione e dell'esilio babilonese. Infatti "il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all'avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni».

La situazione si ripristinò quando "nell'anno primo di Ciro, re di Persia, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: "Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!"». Così Israele riebbe il suo luogo di culto, il suo tempio, per opera di un re straniero. Di questo dramma, ma anche di questa gioia ritrova fa menzione il Salmo 136 (137), che nel ritornello ci fa pregare con queste parole: Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia". Ma l'esperienza dell'esilio è qui espressa con le lacrime della lontananza e l'assenza di ogni canto ed armonia celeste. Non si può gioire quando si è lontani dalla propria patria e dalla propria terra. E tantomeno si può gioire completamente nel nostro pellegrinaggio terreno, ben sapendo che la nostra vera e definitiva patria è quella del cielo.


Di fronte al dramma di Israele comprendiamo anche il dramma dell'umanità di ieri e di oggi e che l'apostolo Paolo nella Lettera agli Efesini, la seconda lettura di oggi, legge alla luce del mistero di Cristo: "Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siamo stati salvati. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone".

La gioia e la letizia cammina in sintonia con le opere di bene, al punto tale che c'è davvero più gioia che nel ricevere. In questa domenica della letizia ci venga in aiuto il santo che in questo tempo ci sta accompagnando ed è San Giuseppe, patrono della Chiesa universale, al quale affidiamo la nostra sincera volontà di conversione all'amore e alla gioia.