Omelia (28-03-2021)
diac. Vito Calella
L'unzione del capo e l'unzione dei piedi di Gesù

Il racconto della passione inizia nella località di Betania, che, dall'ebraico, può anche voler significare "casa dei poveri", poiché "Beth" indica la casa, e gli "anawin" erano gli oppressi, gli impoveriti, i quali nella loro vita di tribolazione vivevano l'abbandono fiducioso in Dio e nella sua provvidenza.
I vangeli raccontano due fatti simili, avvenuti nella stessa località.
Gesù è presentato a tavola «nella casa di Simone, il lebbroso» (Mc 14,3a = Mt 26,8). Questo personaggio è nuovo nel racconto evangelico! Di lui non sappiamo altro se non che invitò Gesù in casa sua a mangiare, nonostante la sua condizione di lebbroso, cioè di uno che era stato escluso dalla convivenza sociale a causa di quella terribile malattia deformante e gli era stato proibito anche di frequentare la sinagoga e il tempio. Una donna, di cui non conosciamo il nome, rappresentante di tutti i "senza nome" del mondo, la cui dignità è spesso ridotta a "numero" e di cui si possono etichettare tanti attributi dispregiativi, entrò nella casa, andò da Gesù, «avendo un vaso di alabastro di un profumo di nardo autentico, molto costoso. Avendo rotto il vaso di alabastro, glielo versò sulla testa» (Mc 14,3b).
Nella versione dell'evangelista Giovanni, sempre a Betania, Maria, sorella di Lazzaro, che Gesù aveva fatto ritornare in vita facendolo uscire dal sepolcro, «presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli» (Gv 12,3).
La scena stupenda di queste due donne contrasta con la decisione dei sommi sacerdoti e degli scribi di catturare Gesù e farlo condannare a morte (Mc 14,1 = Gv 11,45-57).
Il profumo del nardo, cosparso con eccedenza di dono da due donne, onora la testa e i piedi di Gesù.
L'unzione del capo di Gesù ci fa contemplare in lui il servo sofferente che diventerà l'«io ci sono» nella carne dei poveri del mondo.
L'unzione del capo di Gesù con olio profumato onora il suo volto di Figlio obbediente al Padre. Gesù è il discepolo fedele che assume tutte le sembianze del volto del servo sofferente contemplato dal profeta Isaia. Del volto profumato di Gesù, custodendo nel cuore e nella mente le profonde parole della prima lettura, contempliamo la sua bocca e la sua «lingua da discepolo, perché [...] sappia indirizzare una parola allo sfiduciato» (Is 50,4). Gesù è il servo sofferente che si fa solidale con tutti i poveri del mondo perché è uomo dell'ascolto orante delle parole del Padre. Alla contemplazione della bocca si associa quella dell'orecchio "forato" attento all'ascolto della volontà del Padre custodita nelle Sacre Scritture: «Ogni mattina fa attento il mio orecchio, perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza e non mi sono tirato indietro» (Is 50,4b-5). La parola indirizzata allo sfiduciato da parte di Gesù, servo sofferente non è un discorso consolatorio e rappacificante sul senso della sofferenza lacerante e dell'ingiustizia subita nella tessitura delle relazioni. Dall'ascolto da discepolo amato, il suo diventa una "esserci" silenzioso in ogni esistenza sfiduciata e oppressa dal male di una malattia o di uno strappo relazionale. Chi è sfiduciato della vita si sente compreso perché Gesù ha vissuto su di sé tutto il dramma dei malvagi che hanno pianificato e voluto la sua passione e morte di croce.
Tutto il racconto della passione ascoltato oggi, ci presenta Gesù servo sofferente che affronta in silenzio il suo essere consegnato da Giuda alle autorità, dalle autorità a Pilato, da Pilato alla folla, dalla folla alla croce del calvario.
Nel processo al sinedrio il sommo sacerdote «interrogò Gesù dicendo: "Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?" Ma egli taceva e non rispondeva nulla» (Mc 14,60-61a). Le uniche parole dette in quel contesto annunciano coraggiosamente la vera identità di Gesù: Quando il sommo sacerdote chiese: «"Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?" Gesù rispose:"Io lo sono!" E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,61b-62). Citando il libro di Daniele 7,13 e il salmo 110,1, Gesù non solo annunciava la sua filiazione divina, ma diceva misteriosamente che il suo essere "Figlio di Dio" lo rendeva solidale con tutti i «santi dell'Altissimo» (Dn 7,18.22.27), cioè con tutti gli uomini e donne, poveri, sofferenti, consegnati fiduciosamente a Dio nelle loro situazione di tribolazione e persecuzione.
Gesù, davanti a Pilato, al di là di rispondere «Tu lo dici» alla domanda «Sei tu il re dei Giudei?» (Mc 15,2), di fronte alle accuse dei sommi sacerdoti e al nuovo interrogatorio di Pilato, rimaneva in silenzio: «"Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!" Ma Gesù non rispose più nulla, sicché Pilato ne restò meravigliato» (Mc 15,4-5).
Il silenzio di Gesù in tutta la vicenda della sua condanna a morte, flagellazione, tragitto verso il calvario con la croce sulle spalle, crocifissione, fu rotto soltanto dal grido: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Non fu un grido disperato, ma era la preghiera del Salmo 22, che abbiamo pregato oggi, in cui Gesù affrontava la sofferenza con il cuore sanguinante, ma al tempo stesso capace di invocare fiducioso l'«esserci del Padre» anche nel male della situazione: «Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, vieni presto in mio aiuto» (Sal 22,20). Gesù stesso, come tutti i sofferenti del mondo, viveva con quella speranza di dare un significato salvifico anche a quell'esperienza di fallimento apparente di un ideale di vita: «Tu mi hai risposto. Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea» (Sal 22,22b-23).
L'unzione della testa di Gesù ci fa dunque ricordare il silenzio di Gesù, solidale con tutti i poveri della terra, capace di affrontare con dignità tutte le dolorose fasi della passione, da servo sofferente che sa rendere «la sua faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso» (Is 50,7).
Vengono alla mente le parole di presentazione del servo di JHWH dello stesso libro della consolazione di Isaia: «Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità» (Is 42,2-3). Il diritto che Gesù risuscitato proclamerà a tutta l'umanità è la dignità di "figlio amato del Padre" di ogni essere umano, a partire dai più poveri e oppressi. Con Cristo risuscitato presente nella carne dei poveri, quando un sofferente scopre questa vera dignità, inizia un processo di conversione e di liberazione. Nulla è perso. Anche l'esperienza del male di una perdita dolorosissima, come la croce di Gesù, può essere trasformata dall'«esserci» del Padre con il suo «Spirito», in evento di salvezza per tutti e si diventa "luce del mondo", presenza gioiosa e gravida di speranza per chi ancora è immerso nelle tenebre del non senso della vita.
L'unzione dei piedi di Gesù da parte di Maria, sorella di Lazzaro, ci fa contemplare in lui il servo sofferente che ci indica l'unico vero cammino della vita: il cammino dell'umiltà.
I piedi di Gesù diventano il simbolo del suo cammino discensionale, del suo cammino di svuotamento, di spogliazione, di abbandono alla volontà del Padre, che ha caratterizzato tutta la sua missione terrena, fino al momento culminante della sua morte, e morte di croce.
Il cammino dell'umiltà di Gesù è profondamente espresso nelle parole dell'inno Cristologico della lettera ai Filippesi, che abbiamo ascoltato come lettura dell'apostolo Paolo: «Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,6-8).
Prima di lavare i piedi ai suoi discepoli, Maria "lavò" i piedi di Gesù con l'abbondanza esagerata dell'olio di nardo. Quando, giovedì santo, ci sentiremo lavare i piedi da Gesù, sentiamoci anche noi invitati a procedere, con la nostra libertà, nella scelta del cammino dell'umiltà, come Gesù; scelta che si traduce nello stile di vita della diaconia, cioè, del tessere tutte le nostre relazioni con la sfida della gratuità: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,14-15).
Per le strade del mondo vivremo custodendo la professione di fede del centurione romano: Gesù per noi «è veramente il Figlio di Dio» (Mc 15,39) e potremo proclamare con parole coerenti alle nostre azioni che «"Gesù Cristo è Signore!" a gloria di Dio Padre» (Fil 2,11).