Omelia (02-05-2021) |
mons. Roberto Brunelli |
Legati agli altri alla natura e a Dio Non è facile capire chi è Gesù e qual è il suo rapporto con noi; ma tutti hanno il diritto di capire: e allora egli evita difficili discorsi di teologia e si affida all'intuizione, mediante paragoni alla portata di tutti. "Io sono il buon pastore": nel vangelo di domenica scorsa, Gesù si è presentato così, mentre oggi (Giovanni 15,1-8) egli si presenta in altro modo: "Io sono la vite". Stupisce sempre la semplicità con cui egli espone concetti sublimi; parla delle più alte realtà riguardanti la vita umana, facendole emergere dall'umile esperienza quotidiana: dall'ambito pastorale di domenica scorsa a quello agricolo di oggi, dalla pesca ("Vi farò pescatori di uomini" dice ad alcuni, intenti a gettare le reti ) al lavoro delle casalinghe (l'indaffarata Marta, o la samaritana andata ad attingere al pozzo), dagli incidenti che possono occorrere a chi viaggia (parabola del buon samaritano) ai conflitti familiari (parabola del figlio prodigo). Anche nei gesti più semplici, nelle attività quotidiane spesso considerate scontate e dunque insignificanti, nelle esperienze sgrradevoli che si vorrebbe evitare ma si sa sono sempre dietro l'angolo, Gesù invita a cogliere le dinamiche profonde che collegano l'uomo con i suoi simili, con la natura e con lui, nell'attuazione di un piano grandioso che dà senso ai nostri giorni. Ad esempio, il lavoro. Ieri si è celebrato il primo maggio, festa appunto del lavoro, i cui valori tradizionali si sono caricati negli ultimi anni della difficile congiuntura della pandemia, che tuttora investe in particolare disoccupati, precari e quanti altri hanno un'occupazione ma sono a rischio di perderla. Vogliamo sperare che essi siano al primo posto nell'agenda del governo e di chiunque abbia modo di concorrere a risolvere la loro situazione. Al primo posto: che tutti abbiano un lavoro è decisivo per la pace sociale e per salvaguardare la dignità propria di ogni singolo uomo. Il cristiano poi attribuisce al lavoro ulteriori valenze: con una bene orientata attività egli adempie al divino mandato di continuare l'opera creatrice di Dio; la fatica che il lavoro comporta ha una funzione riparatrice del male di cui ogni uomo è portatore; inoltre, se si pensa che il proprio lavoro torna anche a vantaggio di altri, col farlo si mette in pratica il supremo precetto dell'amore del prossimo. Il lavoro, si è detto, mette l'uomo in rapporto col mondo creato, dal quale però egli si differenzia per un aspetto essenziale: mentre in natura tutto obbedisce a leggi preordinate, l'uomo vi si raccorda mettendo in gioco la propria intelligenza e la libertà con cui ne usa. "Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla", dice Gesù (sottintendendo, nulla di buono: purtroppo si vede ogni giorno come l'uomo possa "fare" anche da solo, e quali ne siano i risultati). In natura la vite produce automaticamente i tralci e i relativi grappoli. Trasferendo il paragone al rapporto tra il cristiano e il suo Signore, ogni automatismo è escluso: perché i tralci restino uniti al tronco occorre un duplice concorso di libera volontà. Ora, mentre è garantita la libera volontà della vite-Cristo di trasmettere ai tralci-uomini la linfa vitale che consente i frutti, non è altrettanto scontata la volontà dei tralci di rimanere uniti alla vite, così portando frutto. Dipende dalla loro libertà, dalla consapevolezza che altrimenti inaridiscono, con la conseguenza che lo stesso Gesù subito dopo ricorda: "Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano". L'infinita bontà di Dio dona all'uomo la possibilità di non sprecare la propria vita in un susseguirsi di giorni insignificanti o, peggio, di opere malvagie, ma di colmarla di senso mettendosi in rapporto con lui, e rimanendo con lui in comunione di fede e di amore. |