Omelia (02-05-2021) |
don Alberto Brignoli |
Altro che ascesi! Spesso, nella nostra vita - e nella vita di fede in particolare - abbiamo la percezione di dover necessariamente compiere degli sforzi per migliorare quegli aspetti della nostra personalità, del nostro carattere e, ovviamente, anche della nostra spiritualità, che sono ancora lontani dal raggiungere la perfezione; anzi, a voler essere onesti, sarebbe meglio non parlare di raggiungimento della perfezione (cosa peraltro poco probabile), ma quantomeno di "miglioramento", di "perfezionamento", ossia di qualcosa in continuo divenire che cerchi sempre più di avvicinarci, appunto, a quella perfezione che siamo ben consapevoli (me lo auguro, perlomeno!) di non poter mai raggiungere in pienezza. Nella vita spirituale, questo cammino verso la perfezione in molti casi coincide con una serie di pratiche che genericamente viene messo sotto il nome di "ascesi". Foneticamente, questo richiama la salita, l'ascesa, e nella prospettiva di questo tempo di Pasqua, la solennità dell'Ascensione alla quale ci stiamo avvicinando; in realtà, il significato di questa parola è quello di "sforzo" (come quello di una salita, se vogliamo), e riguarda un atteggiamento spirituale che mira, proprio attraverso un insieme di rinunce, di abnegazioni, ma anche di virtù positive (come quella dell'umiltà) al raggiungimento di una purificazione rituale e spirituale, in vista dell'ottenimento della perfezione religiosa. Senza giungere a compiere pratiche tipiche dei grandi asceti cristiani dei primi secoli (tra cui spiccano sicuramente sant'Antonio Abate e i monaci del deserto), anche nella storia di fede quotidiana delle nostre famiglie e delle nostre comunità si sono spesso insegnati e praticati molti esercizi ascetici, soprattutto nell'aspetto della rinuncia: i "fioretti" quaresimali, la rinuncia nell'assunzione di alcuni alimenti in determinati periodi dell'anno liturgico, la mortificazione nel parlare e nel vestire, la sopportazione spesso sofferta di alcune prove, o di malattie, o di persone "moleste"... tutte cose che spesso, oggi, ci fanno sorridere un po', ma che lungo i secoli sono stati davvero il pane quotidiano per molta gente convinta, in questo modo, di poter dare un taglio a tutto ciò che la allontanava da un incontro forte e decisivo con il Dio della propria speranza e della salvezza. Mi verrebbe da pensare che oggi non solo possiamo simpaticamente sorridere per alcune di queste forme, ma anche (e forse a maggior ragione) possiamo sorridere di gioia perché quel Qualcuno di superiore che attraverso quelle pratiche ci si sforzava di raggiungere, ebbene, è proprio lui a "dare un taglio" a tutto ciò che ci impedisce di stare vicini a lui, insieme a lui, uniti a lui e a suo Figlio Gesù: "Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto". E aggiunge il vangelo di Giovanni: "Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato". Quelle pratiche ascetiche che siamo stati spesso invitati a mettere in atto sono cose che hanno valore nella misura in cui abbiamo la consapevolezza che le più grandi pratiche ascetiche nella nostra vita le mette in atto Dio, e che il vero "asceta" delle nostre vite è lui. È lui l'agricoltore, il vignaiolo, che si prende cura della sua vigna (che, non dimentichiamolo, nell'Antico Testamento veniva usata come immagine per descrivere il popolo di Dio), tagliando quelle impurità o asperità che nei rami impediscono di portare i frutti sperati, e addirittura potando i tralci fertili perché diano ancor più frutto. Ogni pratica ascetica, di rinuncia e di purificazione nel nostro percorso verso Dio, allora, è importante ed è buona nella misura in cui, innanzitutto, non è fine a se stessa e soprattutto non mette in ombra l'opera più grande, quella del vignaiolo che, è bene ricordarlo, non siamo noi. Possiamo, infatti, correre il rischio di ritenere che la nostra vita di fede porti frutto nella misura in cui mettiamo in atto tutta una serie di pratiche, di opere, di gesti, di atteggiamenti che, in maniera ascetica, ci avvicinano sempre di più a Dio: per poi scoprire, alla fine, che lui è già vicino a noi da sempre, anzi, che lui è la vite alla quale noi siamo attaccati come tralci dai quali possono pendere grappoli abbondanti e gustosi nella misura in cui rimaniamo uniti a lui. Anche perché - e oggi ce lo dice in maniera molto chiara - senza di lui non possiamo proprio fare nulla. Possiamo essere anche i migliori asceti di questo mondo, i cristiani più ferventi, le donne e gli uomini dalla pratica religiosa più intensa, ma se alla base non c'è il nostro legame con Dio, tutto ciò che facciamo serve davvero a poco. Anzi, a nulla: diventiamo come un albero da frutto che si secca e serve a poco. Nel caso dell'albero della vite, nemmeno per fare dei mobili, perché è un legno inservibile, buono - e neppure più di tanto - solo per il fuoco. Da questo deriva la nostra serenità, il nostro sorriso: dalla consapevolezza che è la sua grazia che ci salva, e non le nostre pratiche ascetiche (che, lasciatemelo dire, spesso accompagniamo con musi tutt'altro che felici e sereni...). I frutti che nella nostra vita, umana e religiosa, riusciamo a dare, li diamo perché c'è un agricoltore che si prende cura di noi e fa in modo che attraverso di noi passi quella linfa vitale che permette ai grappoli di maturare. Ci verrebbe da dire: "Ma allora, tutte quelle pratiche e quelle rinunce che ci hanno insegnato, non sono servite a nulla?". Indubbiamente, a qualcosa sono servite. Ma ciò che serve di più alla nostra vita di fede è quello che proprio i nostri "vecchi" ci hanno insegnato con proverbiale saggezza: "Stai attaccato al Signore!". Che altro non è se non la "quotidianizzazione", la concretizzazione quotidiana e umile di quello che Gesù, nel Vangelo, oggi ci dice in maniera lapidaria e inequivocabile: "Rimanete in me e io in voi". |